intervista di Vittorio Bonanni per Liberazione (www.liberazione.it)
Simone Oggionni è il portavoce nazionale dei Giovani comunisti, oltre che essere membro del Cpn e della Direzione nazionale di Rifondazione comunista. Lo abbiamo intervistato dopo un comitato politico nazionale un po’ burrascoso per capire qual è lo stato delle cose nel partito, innanzitutto sui temi dirimenti che lui e altri compagni (trasversalmente alle tradizionali componenti) hanno posto attraverso la presentazione di due emendamenti al documento di maggioranza: il rinnovo di chi guida il partito ed una linea politica diversa, che metta fine ad un arroccamento che rischia di relegare definitivamente il partito in un angolo.
”Dopo l’ultima sconfitta elettorale – dice Oggionni – abbiamo ritenuto giusto e necessario chiedere e segnalare un cambio di passo. Le dimissioni del gruppo dirigente, a partire dal Segretario, ci sembravano un atto dovuto, normale e coerente con la gravità della condizione che si era determinata. Purtroppo le reazioni che abbiamo registrato in questi mesi ci hanno sorpreso: questa chiusura a riccio ci è parsa stonata, anche perché ha tradito una grande presunzione e una scarsissima fiducia nelle capacità di autorigenerazione del partito.
Nell’ultimo Cpn gli emendamenti hanno puntualizzato le due questioni intorno a cui è possibile concretizzare questa svolta.
Ai compagni che sostengono che siamo interessati ad una resa dei conti e che agitiamo capri espiatori, rispondiamo che si sbagliano. Basta leggere i due emendamenti. Proprio in quanto chiediamo una svolta politica proponiamo un nuovo gruppo dirigente in grado di interpretarla.
Sul ricambio del gruppo dirigente il discorso è chiaro. Invece diciamo due parole sulla linea politica. Le cose che dicono Ferrero e Grassi non sembrano, forse ad un primo sguardo superficiale, così diverse. Né riguardo alle alleanze, difficili da realizzarsi per chiunque, né riguardo all’Europa e al fatto che dobbiamo guardare con interesse e spirito di emulazione a quanto succede nella sinistra d’alternativa degli altri Paesi europei. E quand’anche ci fossero delle differenze, dovrebbe essere un po’ obbligatorio arrivare ad una sintesi. Viceversa, non oso pensare a nuove scissioni meritevoli di attenzione da parte dei fisici questa volta piuttosto che degli analisti politici.
Io penso che vi siano tre diversi problemi.
Il primo riguarda l’atteggiamento complessivo e ha a che fare, per molti versi, con le nostre diverse culture politiche. Noi proponiamo di rifuggire qualsiasi tentazione minoritaria, qualsiasi atteggiamento che si limiti a rivendicare rivendichi la propria testimonianza e assuma come un mantra la semplice denuncia dei limiti e degli errori altrui. Dobbiamo viceversa ambire a costruire un consenso, inseguire un progetto di egemonia, dobbiamo costruire e scavare dentro le contraddizioni, dentro le incrinature, avendo sempre come obiettivo la costruzione di un soggetto che abbia una massa critica e un consenso significativi.
Il secondo problema riguarda la coerenza tra quello che si dice e ciò che si fa. In questi anni abbiamo sofferto questo problema, patendo la discrepanza tra quello che si diceva (i grandi appelli all’unità, la disponibilità, l’autocritica in tutte le sedi) e ciò che si faceva immediatamente dopo. Come si fa a chiedere “unità” e poi, subito dopo, chiudere le porte, lanciandosi in giudizi definitivi sui soggetti con cui quell’unità andrebbe costruita che non lasciano spazio ad alcuna mediazione, ad alcuna sintesi? Con chi si ritiene subalterno ad un Pd subalterno alle banche, come si fa a costruire una lista elettorale comune?
E come si fa a fare alleanze politiche anche in importanti Regioni con partiti e coalizioni che nazionalmente si considerano amici dei padroni e responsabili delle peggiori nefandezze?
Mi riferisco precisamente al rapporto con Sel, al rapporto con la Cgil – un grande sindacato che andrebbe sollecitato e non deriso – e addirittura al rapporto con la Fiom.
Per noi queste realtà sono interlocutori essenziali, come essenziale è ricostruire un riferimento unitario per quel popolo della sinistra che oggi abita diverse case o, sempre più spesso, non ne abita più alcuna.
Il terzo ordine di questioni riguarda la disponibilità, reale, a mettere Rifondazione Comunista a disposizione di un processo unitario. Calibro le parole: mettere il partito a disposizione di un processo del quale, come è evidente, non siamo né possiamo essere gli unici protagonisti. Io temo che in una parte del partito sopravvivano riflessi condizionati all’autoconservazione e penso che questi siano molto dannosi.
Dovremmo invece dire con coraggio che vogliamo fare esattamente come in tutto il resto d’Europa, dove i partiti comunisti e le forze della sinistra d’alternativa hanno mantenuto il proprio consenso e in molte occasioni lo hanno incrementato proprio perché si sono messe a disposizione, con grande umiltà, scendendo dai propri pulpiti.
E all’obiezione che ci viene fatta secondo la quale nessuno in Italia sarebbe disponibile, io rispondo così: in primo luogo dipende da chi avanza la proposta (per una ragione complessiva di credibilità, che in politica è fondamentale), e in secondo luogo dico che dobbiamo investire senza riserve o reticenze su di uno spazio ed un progetto. E anche su bisogni oggettivi che vivono nella società italiana e che oggi non hanno rappresentanza. Vorrei sapere se tutti siamo d’accordo, oppure no, sul fatto che in Italia sia indispensabile ricostruire, qui ed ora, una soggettività politica che risponda esattamente alla domanda di rappresentanza che la Fiom-Cgil in questi mesi ha drammaticamente messo sotto gli occhi di tutti, parlando – io credo – a nome di diversi milioni di lavoratori. E che serva una soggettività politica che rappresenti il lavoro, perché la lotta di classe in questo Paese le classi dominanti la continuano a fare e le nostre organizzazioni, nessuna esclusa, non sono minimamente attrezzate a rispondervi. Io non credo che su questo siamo tutti, sino in fondo, d’accordo, altrimenti lo avremmo già fatto o avremmo quanto meno in questi mesi ed anni provato a lavorare in quella direzione.
D. Speri tuttavia che si possa arrivare ad una sintesi l’8 dicembre a Perugia? Io la ritengo necessaria e doverosa.
Certamente. Però la sintesi la vogliamo fare riconciliandoci con territori che hanno in questi anni subito passivamente troppe scelte e troppe alchimie di vertice. Con il partito, non con pezzi di questo vertice, i cui risultati sono plasticamente rappresentati dai numeri. E non parlo soltanto degli ultimi cinque anni, seppure questi siano stati particolarmente dolorosi. Parlo complessivamente di un bilancio che bisogna iniziare a fare degli errori e dei fallimenti degli ultimi vent’anni, durante i quali si è dilapidato un patrimonio enorme, distruggendo pezzo dopo pezzo il più grande partito comunista d’Occidente.
Quando parliamo di rinnovamento diciamo anche questo: che bisogna riprendere un cammino, ridare protagonismo al nostro popolo – in particolare ai nostri iscritti e militanti – e che per farlo bisogna introdurre cesure, elementi di discontinuità. Per esempio che non ci interessano i capri espiatori e neppure contrapporre ad essi nuovi capi, più o meno carismatici.
Crediamo invece che sia urgente investire collettivamente in un nuovo gruppo dirigente, che può essere formato dai molti che in questi anni hanno diretto il partito nei territori, sovente malgrado il partito nazionale.
Dopo la riuscita della manifestazione del 12 ottobre che cosa succederà? Maurizio Landini continuerà a fare appelli che rischiano il più delle volte di cadere nel vuoto? C’è bisogno, e lo dico riferendomi al segretario della Fiom, di un suo maggiore impegno politico, oppure dobbiamo noi raccogliere le sue sollecitazioni sperando di coinvolgere uno schieramento di forze sempre più ampio ma che per il momento non c’è?
Noi vogliamo stare dentro un processo che non dipende solo da noi. La piazza del 12 ottobre, bella, grande, festosa e combattiva, segnala e definisce uno spazio che è esattamente quello che dovremmo riempire.
Maurizio Landini è il segretario generale della Fiom ed è giusto che non lo si tiri per la giacca. Va apprezzato il suo impegno, non scontato, nell’aprire questo campo, nel porre un problema di prima grandezza che – lo ripeto – per me è la questione cruciale di questa fase nel nostro Paese.
Assunto questo spazio come luogo strategico della propria iniziativa, ognuno poi dovrà decidere cosa fare.
Non dobbiamo aspettare sempre il papa straniero. Mettiamoci noi in cammino. Sono convinto che quello che faremo nelle prossime settimane potrà stimolare anche altri soggetti, i quali – è chiaro – hanno le loro precise responsabilità. Ma dipende anche da noi: per esempio, se Sinistra Ecologia e Libertà non sarà davvero, sinceramente e credibilmente, sfidata sul terreno unitario, temo non abbandonerà mai la linea politica assunta in questi anni. E anche nel Pd è tempo che le voci di chi non vuole morire nelle larghe intese o nella prospettiva neo-democristiana di Renzi si facciano sentire più coraggiose. Con intelligenza, potremmo lavorare anche lì, non per farci risucchiare in quel vortice, ma per provare noi a disarticolare, a sollecitare, a trovare momenti di confronto.
D. Che cosa pensi di “Rossa”, una componente che pur ponendo dei problemi sacrosanti sembra essere ancora più lontano dal contesto che tu hai descritto?
Sono risorse anche quelle. È chiaro che bisogna poi guardare al consenso e anche alle ambizioni di ogni soggetto. Lo spazio che va costruito deve essere di massa, di popolo. Deve poter credibilmente rappresentare la pluralità e l’estensione del conflitto tra lavoro e capitale. A me interessano meno le avanguardie che si autoproclamano tali e che, per natura, hanno il bisogno di salire in cattedra. Interessano invece molto di più i corpi sociali che si mettono in cammino dentro progetti politici che hanno, o possono avere, una massa critica significativa.
Per questo motivo, tornando a noi, vorrei che finalmente Rifondazione spezzasse questo isolamento. E non in nome di un’altra identità, di altri simboli. Anzi: proprio soltanto nella misura in cui si è forti e anche orgogliosi della propria identità ci si può mettere a disposizione di un processo politico di vero rinnovamento e di vera apertura.
È proprio il contrario di quel che talvolta ci viene imputato. Proprio perché siamo comunisti e abbiamo le radici ben piantate nella nostra storia, non abbiamo paura di metterci in gioco. E proprio nella misura in cui riconosciamo un grande debito di riconoscenza nei confronti della Storia che ci sta alle spalle, possiamo con credibilità proporre di proseguirla, di guardare avanti. E la spinta naturale all’innovazione è nelle pagine più belle della nostra Storia. A quelle guardiamo.
D. Simone, qualora non si arrivasse ad una mediazione e vincesse Ferrero che succederà?
Non possiedo il dono della preveggenza ma so, per quel che riguarda me e i compagni che conosco, che questo è il momento di battersi per invertire una tendenza al disimpegno che ha assunto in questi anni e in questi ultimi mesi proporzioni significative. È il momento di salvare il partito dalla consunzione e su questo concentriamo tutta la nostra attenzione. Facciamo un congresso per dire che soltanto se si cambia Rifondazione comunista può rimettersi in cammino.
Chi volesse riproporre soluzioni già sperimentate deve sapere, semplicemente, che precluderebbe questa possibilità.
D. Tra l’altro nessuno scenario è immutabile…
Nessuno scenario è immutabile e lo è ancora meno se si forza l’elemento soggettivo, scegliendo di cambiare. Ma anche fotografandolo nei suoi tratti oggettivi e di fondo, io penso che esso non assuma meccanicamente i tratti della sconfitta.
Perché altrimenti non si spiegherebbe come in Grecia, per fare solo un esempio, diversi partiti e associazioni mediamente piccole, se non piccolissime, decidono di fare prima una coalizione che li unisce, di promuovere un gruppo dirigente nuovo e credibile, di presentarsi alle elezioni con un programma chiaro e con una grande ambizione a sfidare i socialisti sul terreno del governo e poi di fare un partito unico e questo partito diventa la seconda forza politica del Paese e, forse, alle prossime elezioni, addirittura la prima.
Con un programma che è – lo voglio dire – molto simile al nostro. E se vogliamo parlare di contenuti e anche un po’ di Europa, un tema che aleggia sottotraccia nelle nostre discussioni, bene: invito a leggere i documenti politici di Syriza e le frequenti dichiarazioni di Alexis Tzipras sull’Europa. C’è in essi una radicale opposizione ai trattati e al loro carattere neo-liberista e, insieme, un forte impianto europeista che rifiuta la parola d’ordine dell’uscita unilaterale dall’Ue o del ritorno unilaterale alle monete nazionali.
Quello greco è un caso di scuola. Ma potremmo parlare anche della Spagna, del Portogallo e finanche di Francia e Germania.
D. Non mi sembra però che Ferrero abbia mai detto di uscire dall’euro, posizione che non condivido ma che non demonizzo….
Ci mancherebbe altro! Ma si continuano ad inseguire suggestioni catastrofiste e a fare corrispondere ad esse proposte vaghe, oppure poco credibili. Quanto più siamo piccoli, tanto più rafforziamo la retorica delle nostre parole d’ordine. Cos’è la disobbedienza unilaterale dai trattati? Non sarebbe più serio proporre, come fa la stragrande maggioranza delle forze della Sinistra Europea, una strategia di accumulazione di forze che consenta di modificare i trattati, di eliminare – su scala europea – i vincoli odiosi imposti dal monetarismo? O davvero pensiamo che questi trattati siano caduti dal cielo e non rispecchino invece precisi rapporti di forza e interessi di classe che dobbiamo, con la politica, provare a rovesciare?
E perché, ancora, l’Europa non dovrebbe essere più il terreno su cui porre la sfida di una nuova Sinistra, di una costruzione politica alternativa, che faccia perno su una nuova pianificazione economica, su una nuova Costituzione europea votata dai popoli?
Davvero la crisi ci ha ridotti a guardare alle nostre piccole patrie? A pensare che ci si può, anzi: ci si deve, salvare da soli?
D. Per finire, ho visto dopo la sconfitta e per le ragioni che tu hai ben descritto un clima non sereno in viale del Policlinico. Riuscirete ad andare oltre?
Sì, sono certo che riusciremo ad andare oltre.
Paolo Ferrero
Congresso di Rifondazione: sono contrario ad una svolta a destra.
Da qualche giorno circola sulla rete un appello di cento compagni e compagne che invitano a sostenere gli emendamenti sulle tesi 9 e 15-16 (prima firmataria Veronica Albertini) nel Congresso di Rifondazione Comunista.
Nell’appello si dice testualmente che: “Il concreto rischio che il nostro partito corre, in assenza di profondi mutamenti nella linea politica e nella composizione del gruppo dirigente, è la definitiva marginalizzazione”.
Sui mutamenti nella composizione del gruppo dirigente mi pare che tutti i documenti variamente convengano e quindi non dico nulla. Mi pare invece necessario approfondire bene quali sono i “profondi mutamenti della linea politica” che vengono proposti dagli emendamenti in questione.
Due mi paiono i principali cambiamenti di linea politica proposti, entrambi negativi.
In primo luogo negli emendamenti presentati si parla genericamente di unità della sinistra senza mai dire una parola sul rapporto con il centro sinistra. Si tratta effettivamente di una modifica radicale della linea politica, di un suo vero e proprio rovesciamento.
Da Chianciano in poi abbiamo detto con chiarezza che occorre lavorare per aggregare la sinistra fuori dal centro sinistra.
Lo abbiamo detto con chiarezza perché tutte le scissioni che Rifondazione Comunista ha subito sono avvenute su questa questione: dalla scissione dei comunisti unitari che nel 1994 scelsero di “baciare il rospo” e sostenere il governo Dini, alla scissione del 1998 dei Comunisti Italiani, finalizzata al sostegno al governo Prodi e poi alla partecipare a quelli D’Alema e Amato, fino alla scissione di Vendola nel 2009, avvenuta proprio sul tema del rientro all’interno del centro sinistra.
Lo stesso fallimento della Federazione della Sinistra è avvenuto esattamente su questo tema, quando il PdCI scelse nel luglio scorso di aprire una trattativa con il PD invece di proseguire il cammino della lista autonoma della Federazione della Sinistra.
Proporre – come fanno gli emendamenti in questione – di unire la sinistra facendo finta che non esista il problema del rapporto con il centro sinistra apre la strada ad una unità fittizia, senza prospettive, tanto più visto l’orientamento di SEL e PdCI . Se praticata questa strada ci porterebbe al rischio di mettere in piedi un soggetto di sinistra che si spacchi nuovamente a 6 mesi dalle elezioni – come è successo con la Federazione della Sinistra – o di finire noi stessi dentro il centro sinistra. Questo è il contrario di ciò che affermiamo nel documento non emendato: costruire un soggetto unitario e plurale della sinistra autonomo ed alternativo a questo centro sinistra.
Questo emendamento propone quindi un netto cambio di linea politica, cancellando quanto abbiamo deciso in questi 5 anni da Chianciano in avanti. Proponendo che la costruzione della sinistra avvenga nell’ambiguità per quanto riguarda i rapporti con il centro sinistra. Penso che sia il contrario di quanto occorre per intercettare il disagio sociale che cresce nella crisi, per sconfiggere ile destre populiste ed è privo di senso logico nel momento in cui il PD da due anni governa con il PDL e si propone di manomettere pesantemente addirittura la Carta Costituzionale.
Il problema è quindi costruire la sinistra su basi democratiche e partecipate e nella piena consapevolezza che si tratta di un progetto politico alternativo al centro sinistra.
In secondo luogo l’emendamento propone di unificare Rifondazione Comunista e PdCI, anche qui senza specificare su che base politica debba avvenire questa riunificazione. Anche per quanto riugarda il PdCI l’emendamento non affronta il problema politico del rapporto con il centro sinistra di cui abbiamo già parlato sopra. Il PdCI si è diviso da Rifondazione sul rapporto con il centro sinistra, per sostenere il governo Prodi e poi per partecipare a quello D’Alema e Amato. Per proporre l’unità occorre che questo nodo sia chiarito, altrimenti ci troveremo a ripetere sempre lo stesso film, come è già accaduto con la Federazione della Sinistra. Per questo il documento non emendato afferma che il processo di unità dei comunisti deve avvenire nella chiarezza dell’alternatività al centro sinistra e sulla base della rifondazione comunista.
Da ultimo l’emendamento propone l’unificazione tra PdCI e PRC ma non specifica come. Nell’ultimo congresso il PdCI ha proposto ufficialmente lo scioglimento dei nostri due partiti per realizzare l’unificazione. E’ questa la proposta che avanza l’emendamento? Il documento non emendato non prevede che Rifondazione possa sciogliersi, anzi propone di rilanciare Rifondazione Comunista e di rafforzarla. Ogni percorso unitario deve partire dalla valorizzazione di Rifondazione e non dalla sua liquidazione.
Per queste ragioni penso che i “profondi mutamenti nella linea politica” che vengono proposti con gli emendamenti siano sbagliati: si tratterebbe di una svolta moderata quando invece abbiamo la necessità di costruire una sinistra antiliberista e anticapitalista – in Italia come in Europa – in piena autonomia dal centro sinistra.
Dobbiamo cogliere l’opportunità che si è aperta con le manifestazioni del 12 e del 19 per riuscire a realizzare il nostro progetto politico, non cambiare linea.
Paolo Ferrero
================
“costruire un soggetto unitario e plurale della sinistra autonomo ed alternativo a questo centro sinistra.”
” Ogni percorso unitario deve partire dalla valorizzazione di Rifondazione e non dalla sua liquidazione.”
Due pilastri, pensino bene a queste due questioni i compagni, non si facciano ingannare dai due emendamenti propagandati come “nuovisti” (alla Renzi, ora Renzi è appoggiato da quelli che voleva rottamare).
tutto questo è agghiacciante… un congresso così non può portare che ad altre scissioni..
ma perché non attacca i documenti due e tre?
È già stato detto che sono insufficienti o liquidazionisti.
In quanto alla scissione, chiedi a chi vorrebbe fare una scissione, non a chi è sempre rimasto in Rifondazione.
Scusami ERIK quello che tu chiami democrazia volendo che fossero preventivamente indcati i nomi dei segretari, si configura come pebbliscitarismo, una forma di fascismo o partito personale, ma se tu votassi il segretario anziche il partito, chi lo sposterebbe più un segretario eletto dagli elettori? tu voti una mozione, un domumento politico che porta il primo nome tra i firmatari in ordine alfabetico, e poi a il documento che vince avrà più delegati e si elegge il segretario, anche se può essere votato anche da altre mozioni, e meno male, il segretario deve potere essere sfiduciato dal CPN se invece fosse votato dai militanti solo loro potrebbero sostituirlo.
Guarda che OGGIONNI, ha detto cose di buon senso, può esserti simpatico o no ma politicamente il suo ragionamento è in linea con quello che che la tradizione comunista si era prefissa, ossia rotazione e rinnovamento negli incarichi, se no si formano incrostazioni, che non è facile eliminare, si critica tanto ” essere comunisti” ma spece il primo emendamento ha lo scopo di rinnovare il gruppo dirigente qui nessuno fa processi a nessuno, non abbiamo bisogno di capri espiatori, Ferrero, non è stato cattivo ha ma in questa commedia umana, ha gia recitato al sua parte e non si può occupare il palcoscenico per sempre, questo è nel ordine delle cose, io ho amato Ferrero come Bertinotti, ma deve arrivare anche il turno degli altri, il gioco è bello se i ruoli si possono invertire, se giochiamo a guardie e ladri non è che io posso fare sempre il ladro e tu sempre lo sceriffo, se no che gioco è. ciao ERIK e scusa l’intromissione, ma forse tu queste cose li sai di certo, e volevi sfottere YURIcusami ERIK (mannaggia la gioventù) ma quello che tu
Noi abbiamo le correnti che si sono incrostate, però.
riporto dal blog di grassi
Dice Simone Oggionni in una sua recentissima intervista a liberazione.it:
“Quando parliamo di rinnovamento diciamo anche questo: che bisogna riprendere un cammino, ridare protagonismo al nostro popolo – in particolare ai nostri iscritti e militanti – e che per farlo bisogna introdurre cesure, elementi di discontinuità. Per esempio che non ci interessano i capri espiatori e neppure contrapporre ad essi nuovi capi, più o meno carismatici.
Crediamo invece che sia urgente investire collettivamente in un nuovo gruppo dirigente, che può essere formato dai molti che in questi anni hanno diretto il partito nei territori, sovente malgrado il partito nazionale.”
Ora, a meno di due mesi dal Congresso mi sembra lecito chiedere (l’ho già fatto qualche settimana fa, senza fortuna): nel caso vinca la prima mozione, si può sapere chi sarà il prossimo Segretario di Rifondazione?
Se passano gli emendamenti interni alla prima mozione (firmati da Grassi e altri, tra cui Oggionni), chi sarà il prossimo Segretario del partito? Potrebbe essere indicato lo stesso Oggionni?
Se vince la seconda mozione, sarà indicato Bellotti? E se vince la terza, il nome sarà quello di Targetti?
O saranno altri, “che hanno diretto il partito nei territori”, come afferma Oggionni? Non sarebbe bene conoscere i nomi già da adesso?
Insomma, non sarebbe il caso e l’ora di smettere di giocare a carte coperte e rendere l’aria (del Congresso) un pò più trasparente?
Non sarebbe anche questo un modo per “ridare protagonismo al nostro popolo”?
Più democrazia e trasparenza non farebbero certo male a Rifondazione. Anzi.
E questo vale per tutti.
Rottamare i vecchi dirigenti (e prima di tutto il ministro del governo Prodi) per mandare avanti questi giovani, che sono il nostro futuro a partire dal segretario dei giovani. ha stoffa il ragazzo. Carlo Brisighella
Renzismo a go go.
Ma se Oggioni vuole rottamare Ferrero, perché ci si allea nel documento 1? Per spartire i posti?
Perché non ha fatto un documento alternativo, visto che voleva mandare via Ferrero?
Il resto è fuffa.
Finalmente una ventata di aria fresca e di partito di massa tra noi. Usciamo dalle secche in cui ci ha ficcato Paolo Ferrero. E’ la posizione che sosterremo in molti, anche per avere finalmente un nuovo segretario.
uscire dall’euro non significa ripiegarsi sul nazionalismo ma anzi riprendere in mano la democrazia il controllo della politica economica oggi di fatto esautorato, l’unione europea si costruisce su altre basi unione del mercato del lavoro del sistema fiscale di formazione, l’euro è solo lo strumento per portare avanti le politiche di austerity si elimina il monetarismo ssolo se si esce dall’euro punto
L’unità tra i popoli europei è una cosa giusta, purtroppo quest’idea è stata manomessa da politici/governi al servizio degli interessi delle lobby.
Pero’, il regno unito che non ha l’euro, ha comunque al momento un governo conservatore capitalista.
Per cui, il problema non è il nome della moneta, ma riuscire ad opporsi alle politiche neoliberiste in tutte le loro forme.
Quello che ci vuole è proporre alternative fattibili all’austerità dettata dall’ue, insieme a tutte le forze di sinistra europee appunto.
E che le politiche economiche possano essere compatibili con politiche sociali, per rispondere ai bisogni dei cittadini, e non delle banche private, dei speculatori, delle multi-nazionali con i loro profitti…
Sono d accordo con quanto detto,e ora di cambiare , stare chiusi in se stessi porta solo alla morte del partito , bisogna ricordare che anche Togliatti a sempre lottato per una grande unione delle sinistre socialiste
http://www.rinascita.eu/index.php?action=news&id=17425
Il colloquio a tre Milanesi-Tarchi-Ferrero, su una parentesi della Germania postweimariana
La prospettiva nazional-bolscevica. Ribelli e borghesi dopo Weimar
0 commenti Stampa Articolo PDF Articolo Riduci Originale Aumenta
di: Umberto Bianchi
Interessante la presentazione di “Ribelli e borghesi. Nazional bolscevismo e Rivoluzione Conservatrice.” di Franco Milanesi, presentato Giovedì 18 ottobre, presso la “Casa delle culture”, oltreché dall’autore medesimo, dall’intellettuale non conforme Marco Tarchi, dallo studioso di marxismo Mario Tronti e dal segretario del PRC, Paolo Ferrero. Un dibattito interessante se non altro perché, per una volta tanto, abbiamo potuto assistere ad un serio tentativo di comprensione di un fenomeno “sopra le righe”, attraverso un’analisi il meno possibile influenzata dai soliti, decrepiti, schematismi ideologici. Certo, non si può parlare di nazional bolscevismo, senza parlare dell’esperienza di Weimar, ovverosia di quel magmatico ribollire di esperienze, istanze, sincretismi, sorti all’ombra della profonda crisi sistemica ingenerata dalla fine del Primo conflitto mondiale, in una delle nazioni più duramente colpite da quella sconfitta; e cioè la Germania del Reich guglielmino. Due decenni di sommovimenti, rivolte, spargimenti di sangue e disastrosa crisi economica, che spalancheranno le porte all’avvento del nazional socialismo, di cui però Weimar costituisce senza dubbio il brodo di coltura. L’immensa crisi che il mondo occidentale e l’Europa si trovano ad affrontare all’indomani della Grande Guerra, trova la propria prima, sconvolgente risposta nella Rivoluzione di Ottobre, in Russia, generando una serie di violenti contraccolpi in un’Europa a metà strada tra l’euforia nazionalista che aveva animato l’intero, tremendo conflitto e l’impetuoso riproporsi delle istanze sociali che avevano fatto da sfondo all’epoca a cavallo tra il 19° ed il 20° secolo un po’ in tutta Europa. Istanze che, inizialmente cavalcate dai vari movimenti di matrice progressista e marxista, avevano finito in breve con il divenire patrimonio di “altri” modi di intendere ed interpretare il socialismo ed percorso rivoluzionario in genere, come accaduto, per esempio, con gli anarco sindacalisti di matrice soreliana. Non si può, però, comprendere Weimar ed il clima ideologico che la anima e le fa da contorno, se prima non si sottolinea la presenza di un elemento che funge da convitato di pietra nell’intera vicenda, e cioè quella “Krisis” che comincia a serpeggiare e ad attanagliare le due grandi narrazioni ideologiche dell’epoca: il liberalismo ed il marxismo. Verso la fine del secolo 19°, infatti, le certezze assiomatiche dell’illuminismo e del positivismo avevano cominciato a scricchiolare vistosamente. Una ventata di irrazionale vitalismo ne aveva messo in crisi le paradigmatiche certezze. Nietzsche, Freud e Marx avevano iniziato stravolgendo il tranquillizzante concetto di coscienza razionale ed unitaria dell’ “io”, di cartesiana memoria.
Accanto ad espressioni artistiche e letterarie di avanguardia, si assisteva ad un rinnovato interesse per il sapere occulto, mentre il vecchio liberalismo borghese aveva cominciato ad entrare in crisi profonda, sostituito da una forma di nazionalismo intriso di venature di vitalismo e misticismo, sino a quel momento sconosciute, come nel caso dell’Alliance Française di Charles Maurras. Lo stesso ambito socialista e marxista, cominciava ad essere attraversato dai sussulti di una profonda crisi d’identità. In ambito marxista Bernstein con la socialdemocrazia, Kautski con la propria intransigenza, ed in particolare Sorel, con il proprio percorso volto a superare il marxismo stesso, mostrano una profonda spaccatura nelle modalità di intendere e gestire la visione di fondo dell’idea di rivoluzione. Non solo. All’interno dello stesso fronte del marxismo più ortodosso, si iniziano a percepire profondi dissapori di matrice tattica tra lo stesso Lenin e Rosa Luxembourg, più elitario il primo, più aperta alla partecipazione di massa la seconda. Weimar dunque, si inaugura avendo alle proprie spalle i recenti esempi dei sindacalismi rivoluzionari italiano e francese, l’irrazionalismo vitalista dannunziano, le avanguardie artistiche, la profonda crisi dei grandi sistemi ideologici sino ad allora predominanti, ovvero la ricerca del superamento di questi ultimi attraverso nuove ed originali sintesi.
In Weimar convivono i marxisti spartachisti di Karl Liebeknecht e Rosa Luxembourg, accanto agli ariosofi della Thule Gesellschaft di Von Sebottendorf e soci, i “Freikorps” di Von Salomon accanto ai nazional bolscevichi di Niekisch, i socialisti accanto ai rivoluzionario-conservatori alla Moeller Van Den Bruck e Hugo Von Hoffmanstahl, assieme ad una miriade di altri gruppi e gruppetti. Weimar è dunque attraversata dalla tentazione di coniugare il nazionalismo pan germanico con il bolscevismo russo-sovietico, nel nome di una futura patria euro-asiatica.
Una tentazione che risuona, d’altronde anche tra gli esponenti di spicco del primevo eurasismo russo alla Gumilev ed alla Trubetzskoy. Il profondo disprezzo per il capitalismo di stampo americano ed occidentale e la spinta ad una rivolta delle masse in tal senso, lo spettacolo della mediocrità borghese dell’Europetta figlia del liberalismo ottocentesco, accanto alla presa di coscienza dell’insufficienza categoriale marxista, in particolare per quanto attiene al concetto di nazione come “uhr-heimat”, costituiscono il propellente ideologico dell’istanza nazional bolscevica di Ernst Niekisch. Al nazional bolscevismo aderiranno inizialmente personaggi del calibro di Otto Strasser, il rivoluzionario-conservatore Ernst Junger, il capo delle SA Ernst Rohem, lo stesso Von Salomon ed il futuro ministro della propaganda del Terzo Reich, Josef Goebbels. La stessa KPD marxista adotterà a più riprese tematiche nazional bolsceviche per rendere più malleabile e digeribile l’impianto teorico marxista, nei riguardi delle preponderanti spinte nazionaliste. Ma il nazional bolscevismo, al pari della Konservative Revolution, finirà con l’essere fagocitato ed introiettato all’interno del nazional socialismo tedesco e, laddove non ne accetterà in toto le direttrici ideologiche, conoscerà i rigori di una totalitaria persecuzione, come nella travagliata, pluridecennale, vicenda di Ernst Niekisch, detenuto nelle carceri del Terzo Reich sino alla fine del secondo conflitto mondiale ed, a seguito di una deludente esperienza nella DDR, nel ruolo di isolato e polemico transfuga nella Germania Ovest. L’incontro alla “Casa delle Culture” ha affrontato l’intera questione sotto il profilo della critica ideologica e di un esame spassionato, offrendo degli interessanti spunti di riflessione, in primis quelli offerti dal Prof. Tronti che, dopo i dovuti distinguo critici, non ha esitato a presentare un’inusitata ed innovativa critica all’eccessivo materialismo economicista della dottrina marxista, sino a spingersi ad esaltare il concetto di Eurasia. Lo stesso Milanesi, proveniente dalle fila di RC, non ha avuto alcun problema nel sottolineare la validità del mondo valoriale, del “sentire” che traspare dagli scritti di Junger, senza però poter dare una risposta su come conciliare tutto questo, con l’impostazione marxista. Più pessimista sicuramente l’intervento di Tarchi, più prudente e timoroso quello di Ferrero, ma tutti, comunque, animati da un preavvertibile malessere di fondo, riguardante l’insufficienza delle attuali categorie ideologiche. E qui ritorna, prepotente, l’urgenza di un momento di chiarificazione attorno alla questione perno: quella sul senso dell’intera vicenda dell’Occidente, alla luce della Globalizzazione ed alla non più rinviabile scelta radicale che questa ci pone. O “con” o “contro” di essa, senza “se” e senza “ma”. Per questo, quella del nazional bolscevismo e della sua eterodossia ideologica, deve rappresentare per noi un punto di partenza, in direzione di un’autentica “renovatio” del pensiero che sappia finalmente coniugare la vitalistica spinta al divenire con la dimensione degli archetipi valoriali, che costituiscono quel bagaglio di ricchezza e varietà delle culture di tutti i popoli del mondo. La pressante sfida della Globalizzazione, sempre più, oggidì, va imponendo la tabella di marcia per la creazione di un un fronte antagonista a livello planetario. L’Iran sciita di Ahmadinejad oggi va a braccetto con la Siria laica di Assad e con il Venezuela socialista e bolivarista di Chavez. In tutto il mondo, vanno pian piano facendosi strada un arcobaleno di nuove istanze, da tutte le posizioni e tutti i fronti, ma tutto questo ancora non basta. L’Italia, a causa della sua particolare vicenda politico-ideologica, dovrebbe avere la forza di divenire il laboratorio per un epocale cambiamento nel sentire politico, non più legato ai vetero campanilismi d’accatto, che tanto piacciono ai padroni del vapore. La lotta di classe e gli interessi della comunità nazionale, possono trovare un punto d’incontro in una sintesi ideologica in grado di superare definitivamente la grande frattura Destra-Sinistra, ingeneratasi in Occidente all’indomani della Rivoluzione Francese. Allora al capitalismo globale potremmo opporre un fronte variegato, costituito dalle cento, mille realtà di lotta oggidì presenti sul pianeta Terra, ma tutte, ugualmente accomunate, da un’unica titanica volontà di Resistenza. E, tornando ad Ernst Niekisch, è proprio da Lui che dobbiamo ripartire. Dalla sua originalità, dalla sua eterodossia, dal suo spirito ribelle ad ogni costo, da quella Wiederstand/Resistenza, in grado di ricordarci che un altro mondo è sicuramente, ancora, possibile, senza “se” e senza “ma”.
Eccola qui
http://www.esserecomunisti.it/?p=63083
Come da un po’ di tempo a questa parte, Oggionni liquida certe questioni a suon di battutine. La possibilità della fine dell’area euro sarebbe una suggestione catastrofista? Eppure, tutti i nostri economisti di riferimento la prendono sul serio. Brancaccio dice da mesi che l’euro è tenuto in “coma farmacologico” da Draghi con le immissioni di liquidità, ma appena finisce l’effetto di un’immissione tornano a manifestarsi le tendenze centrifughe. Anche gli economisti marxisti che vogliono esplicitamente che l’area Euro sopravviva, per esempio Bellofiore, prendono sul serio la possibilità. All’estero addirittura la Rosa Luxemburg Foundation finisce per dare ragione a LaFontaine e a quelle aree di Die Linke che si sono schierate contro la difesa dell’euro a qualunque costo. A cosa serve nascondere la polvere sotto al tappeto?
La verità’ su rifondazione comunista e’ meno labirintica di chi parla della complessità del momento la via maestra e’ quella di valorizzare senza se è senza ma il buon lavoro fatto in questi anni il rinnovamento e’ sulla questione morale etica sul percorso plurale e non minoritario bisogna mettersi in cammino incontrare intelligenze e saperi un confronto serio fra diverse sensibilità’ un serio confronto su un partito plurale che sappia accogliere e non respingere,un partito che sappia ascoltare che sappia riprendersi quella credibilità’ perduta sui territori per colpa dei tanti teorici della complessità’ che ancora oggi vogliono riciclassi con il partito dei tesserati e non delle vere lotte sui territori il rinnovamento passa dalla capacita’ di lottare realmente con passione per un futuro migliore per un altro mondo possibile e non per le fortune personali
quanti ceffoni (politicamente parlando) al buon ferrero…
Avanti così. Anche se pure tu hai le tue belle responsabilità (non essertene già andato?), saresti di gran lunga meglio di quello… E siamo in tanti a pensarlo, amico,
Grande articolo e belle parole di oggionni,tralascia la parte piu’ importante,che anche lui ha fatto e fa parte di questo gruppo dirigente del prc da un bel po di anni,e adesso per rifarsi una verginità e provare ad ambire alla segreteria,si chiama fuori da scelte politiche avvallate anche da lui!!!!!!
Fammi capire Andrea, ma tu non sarai mica uno di quelli che è stato con lui e poi non hai ottenuto quel che volevi e te ne sei andato sbattendo la porta? Sbaglio? Troppo cattivello?