La nostra è una sconfitta netta e senza appello. Proponiamo alcuni spunti, un contributo per capire e ripartire.
- Le dimensioni del terremoto a cui assistiamo sono tali da impedirci di leggere la nostra sconfitta in termini vittimistici od autoassolutori. Non è sempre colpa degli altri. Non è colpa del popolo che non ci ha capito o della legge elettorale.
- Abbiamo dimostrato di non riuscire a capire la società italiana: non prevedere neppure lontanamente il risultato di Berlusconi né la portata della vittoria di Grillo significa non avere il polso del Paese. Per chi fa politica non si tratta di un dettaglio.
- Il voto del nostro elettorato si è polarizzato tra una sinistra con ambizioni di governo (con un profilo e contenuti moderati) e una critica radicale al sistema politico (con venature populistiche). Lo spazio politico tra centro-sinistra e Grillo si è ridotto con queste elezioni al punto che ogni opzione intermedia è risultata – agli occhi della nostra stessa gente – inutile e velleitaria. Anche nella mancata comprensione di questa tendenza vive una nostra specifica responsabilità.
- Tuttavia, nelle condizioni a cui eravamo giunti, lo sbocco di Rivoluzione Civile con Ingroia candidato presidente del Consiglio era non soltanto lo sbocco obbligato ma anche quello realisticamente più avanzato. Sono stati fatti certamente errori nella campagna elettorale e nella compilazione delle liste, ma non è certo questo il punto di fondo. Non c’erano, nelle condizioni date, alternative realistiche alla scelta compiuta.
- La forza di Sel è uscita dalle urne altrettanto ridimensionata. Il risultato complessivo è molto deludente. Soltanto la sua scelta di coalizzarsi con il Pd e questa legge elettorale le hanno consentito di eleggere parlamentari.
- La nostra sconfitta non è la prima. È quella più clamorosa, ma è soltanto l’ultima di una serie non interrotta di sconfitte e arretramenti, a partire dal risultato dell’Arcobaleno del 2008.
- La responsabilità di questi errori e di queste sconfitte è nostra, di tutti noi. Ma i gruppi dirigenti dei partiti della Sinistra italiana, a partire da quelli più ristretti, portano sulle spalle le responsabilità maggiori. Per questo è segno di maturità e di intelligenza politica che lo riconoscano facendo un passo indietro. Non servono rese dei conti, ma il coraggio di cambiare e avviare un processo di radicale rinnovamento. Dei gruppi dirigenti e delle forme e delle modalità dell’iniziativa politica.
- Questo è un punto determinante: il Movimento 5 Stelle vince anche perché è percepito come un luogo diretto di protagonismo e democrazia delle persone in carne ed ossa. I partiti sono (e sono percepiti) come luoghi inaccessibili e incartapecoriti, vittime di burocrazie e liturgie stantie. La piramide, come si diceva un tempo, va rovesciata e i soggetti reali devono essere finalmente coinvolti e resi protagonisti dei processi decisionali.
- La linea politica va decisa e riorientata nei passaggi clamorosamente complessi che abbiamo di fronte. Non servono svolte a destra né svolte a sinistra. È invece necessario rilanciare il ruolo dei comunisti dentro un processo di aggregazione nuovo di tutta la sinistra italiana: Stati generali o Costituente. Ma certo non è possibile stare fermi.
- Per farlo serve la massima unità e compattezza tra noi, a partire da quel popolo che in questi mesi di campagna elettorale ha dimostrato nei territori, in ogni città e in ogni piazza, di sapere fare politica e di saperla fare con il cuore e con la testa. Un patrimonio che non va disperso. Non lo disperderemo soltanto se saremo capaci di individuare, indicare e costruire un progetto politico. Radicalmente nuovo, unitario, di sinistra, non minoritario, in connessione finalmente con la società, le sue tensioni, le sue contraddizioni.
Simone Oggionni, Francesco D’Agresta
LE FOTO CON LA SIGNORA CHE INDOSSA LA MAGLIA “FORNERO AL CIMITERO”
DEVE FARLE GRUILLO (CON TUTTO IL RISPETTO PER LA SIGNORA)
MA DAL SEGRETARIO DI UN PARTITO COMUNISTA MI ASPETTO CHE VADA A VISITARE HUGO CHAVEZ DOPO IL PRIMO INTERVENTO ALL’HAVANA;
CHE INCONTRI EVO MORALES CHE VIENE IN VISITA A ROMA..L’AMBASCIATORE ECUADORIANO DOPO L’ELEZIONE DI CORREA.
..SALUTI COMUNISTI, A PRESTO SPERO, Fabio;-///
L’IDV, il PDCI e il PRC spariti. SEL al palo ma con buone catre politiche ancora in mano e una buona pattuglia (dal punto di vista politico) parlamentare.
Dopo che Brrsani fallirà il tentativo di governo, nel PD è prevedibile la rissa con Renzi che prenderà tutto o comunque farò staccare gli ex ppi dal PD.
Se il quadro è questo, perchè non pensare ad un Partito della Sinistra? Essere comunisti, SEL e sinistra PD che fanno un aprtito della sinistra come in tutta europa. Capisco, i comunsiti sarebbero minoranza – ma la situazione sociale, la prospettiva, le condizioni economiche, la ricostruzione della sinistra e dei comunsiti presuppongono il cimentarsi in questo soggetto come necessità minima per continuare ad esistere anche come comunisti.
Non parlo di tendenza o di corrente culturale, ma di gamba della sinistra che è diverso. A patto che si abbandoni il minoritarismo, la vera sciagura dei comunisti degli ultimi anni, incapaci di incidere e attrarre e rinchiusi (ferrero è il campione) nei micro nostalgici recinti pensando di essere più visibili ed “esistenti” e scoprendo oggi di essere degli irresponsabili inutili.
E’ dentro un grande partito della sinistra plurale (che è diverso dal correntizio) che sposa la costruzione e l’eleaborazione che ogni componente ed ogni esperienza può riemergere per migliorare e cambiare questo mondo.
Coraggio, chiediamo a Vendola e al PD di cimentarsi ed uscire dall’anomalia mondiale creata con la nascita del PD a cui noi abbiamo contribuito con la nicchia dei minoritari. Spezziamo le cornici…dai
Se non erro, Beppe Grillo ha dichiarato: “Ho incanalato tutta la rabbia in questo movimento. Dovrebbero ringraziarci uno ad uno: se noi falliamo l’Italia sarà guidata dalla violenza nelle strade”. Inoltre, mette in guardia: se il suo movimento fallirà ”questo accadrà”. Finalmente un po’ di verità dal comico genovese, il quale rende noto:
1) che ha incanalato tutta la rabbia dei proletari in modo che questa potesse essere controllata (da chi?) poiché l’alternativa era la violenza nelle strade (la violenza di chi?);
2) che dovrebbero ringraziarlo e ringraziarli uno ad uno (riferito ovviamente agli elettori e supporter grillini; ma chi dovrebbe essere grato a Grillo e al Movimento 5 Stelle?);
3) che lui rappresenta l’ultima risorsa (ma per chi?) altrimenti accadrà “l’irreparabile”.
Cominciare a porsi queste domande potrebbe già significare tutta una serie di risposte.
Probabilmente c’è chi ha la testa molto dura, o la faccia tosta da fingere di non capire.
Il pericolo più grave è insito nella funzione ideologica e strumentale che il grillismo sta (inconsapevolmente o meno) svolgendo in quanto fa esattamente il gioco dei poteri forti che esigono un ricambio generale dei vertici dello Stato, una “rottamazione” (uso un linguaggio renziano) della “casta” per proseguire quella politica di rapina e di estorsione legalizzata del plusvalore a beneficio esclusivo del capitale finanziario internazionale e a netto discapito delle masse lavoratrici del nostro paese.
Grillo e il Movimento 5 Stelle rappresentano un chance utilissima per evitare una deflagrazione della situazione socio-politica italiana, che si estenderebbe subito ad altri importanti paesi europei. Meglio consumare la reazione popolare contro una “casta” di farabutti, distrarre l’attenzione dell’opinione pubblica mentre si ridefinisce un nuovo meccanismo per perpetuare lo sfruttamento dell’economia del continente, e cioè dei popoli europei. D’altra parte è Grillo stesso ad aver creato la prima condizione perché ciò sia accettato, con la paura che non saranno più pagabili stipendi e pensioni.
Sembra circolare un diffuso ottimismo sull’Italia da parte della finanza internazionale (si pensi all’intervento di Draghi ed alla prossima emissione di nuovi titoli di stato). Perché?
Perché l’instabilità politica non determina una caduta dello spread, cioè il differenziale comparato di interesse sul debito tra i titoli italiani e quelli tedeschi di riferimento?
La mazzata più pesante che poteva ricevere Grillo nel post-elezioni sarebbe stata un’impennata dello spread in modo da dimostrare agli italiani l’errore del loro voto. E invece no. Anzi, lo spread è calato da 340 a 325, cioè al di sotto del livello ottenuto da Monti dissanguando il paese. Sembra che l’esito del voto in Italia, l’impossibilità di varare un governo stabile non preoccupi eccessivamente i circoli finanziari e le borse.
Perché? La risposta potrebbe essere che è cambiata la politica del capitale finanziario internazionale nei confronti dell’Italia. Essendo il nostro paese al limite della sopportazione fiscale e quasi affondato nell’indigenza, riesce impossibile forzare ulteriormente col rischio di una rottura del meccanismo. Veri fenomeni di defezione fiscale già in atto in molti paesi europei (ad esempio, Grecia e Portogallo) e le pesanti sofferenze del credito consigliano di cambiare tattica. Per farlo servono due condizioni:
1) cambiare un quadro politico che ormai pare disabilitato ad imporre ulteriori sacrifici;
2) ricontrattare e dilazionare il debito pubblico affinché, lavorando a più basso regime, l’estrazione del plusvalore complessivo del paese non si inceppi ma possa proseguire.
Un paese nelle condizioni in cui versa l’Italia, con un debito pubblico immenso, una crisi politica che, a prima vista, appare irrisolvibile, con un apparato produttivo alla sfascio, una crisi sociale terribile, una corruzione imponente ed inarrestabile, una criminalità organizzata giunta ad insediarsi in quasi tutti i gangli del potere, un grado di inefficienza paralizzante della macchina pubblica, dovrebbe indurre alla valutazione opposta, vale a dire al pessimismo più nero. E tale era la valutazione dei circoli finanziari internazionali.
Invece, “stranamente” in concomitanza con l’esito elettorale, il giudizio sembra essersi rovesciato e quasi tutte le principali istituzioni finanziarie diffondono ottimismo e fiducia sulla tenuta dell’Italia. Ripeto ancora: perché? Cos’è che ha determinato l’inversione subitanea dell’atteggiamento della finanza internazionale verso l’Italia? Tale domanda è la chiave che consente di interpretare quanto è successo e sta succedendo.
Perché la valutazione dell’Italia sul piano della solvibilità finanziaria si è letteralmente capovolta il giorno dopo i risultati elettorali? Il resto è secondario, è pura scenografia.
In sintesi penso questo. Monti ha raschiato il fondo della pentola, ha portato l’estrazione del plusvalore complessivo dell’Italia fino al limite massimo di sopportazione ed oltre.
Il meccanismo era prossimo ad incepparsi e a scatenare una reazione di defezione fiscale (come accade già in Portogallo e in Grecia) che, per le dimensioni dell’Italia, avrebbe comportato una rottura degli equilibri continentali ed innescato una spirale di lotte sociali durissime. Per queste e altre ragioni non era più possibile proseguire oltremisura.
In secondo luogo, la casta politica non é più in grado di fornire una sufficiente copertura al potere vero. Il rischio che essa crollasse per la spinta dell’indignazione popolare comportava il rischio che il potere vero, quello del capitale finanziario, diventasse a quel punto il successivo polo di concentrazione dell’odio popolare (cosa che in parte già avviene). Occorre dunque liquidare la “casta” e sostituirla con qualcosa di più credibile.
Il capitale finanziario ha perfettamente compreso di non poter più esigere l’estrazione massiva di plusvalore complessivo dal nostro paese e sceglie di dilazionare ulteriormente il debito pubblico italiano entro i limiti che ne assicurino un pagamento a basso regime.
Ecco che a questo punto si inserisce il ruolo di Grillo e del Movimento 5 Stelle con l’istanza, condivisa e rivendicata dalla gente comune, di “rottamazione” dell’attuale ceto politico dirigente, immerso nell’illegalità, tra abusi e privilegi, e travolto dagli scandali sulla corruzione, e la richiesta di “ricontrattare il debito pubblico italiano”.
Insomma, serviva dirottare l’indignazione della gente verso un obiettivo (la “casta”) che non fosse letale per il potere vero. Un bersaglio che consentisse di abbassare la temperatura sociale facendo “sfogare” la rabbia popolare. E’ quanto si è verificato. E nelle temperie di questa operazione strategica, si punta a rimodellare una forma della politica e delle istituzioni statali del nostro paese in grado di presentare e far passare il pagamento del debito pubblico come una “necessità ineluttabile”. Grillo e il Movimento 5 Stelle servono perfettamente a questo scopo. Ma il calcolo è sbagliato e il fattore di errore risiede esattamente nella natura irreversibile e sistemica della crisi capitalistica.
Lucio Garofalo
Una modesta proposta ai militanti e ai dirigenti di Rifondazione Comunista
Abbiamo già scritto un commento rapido sui risultati elettorali della lista “Rivoluzione civile”, cioè sull’ultimo tentativo dei rientrare in Parlamento da parte della “sinistra radicale” (alla quale si era aggiunta l’IdV). Vogliamo adesso tentare una riflessione più approfondita, che speriamo possa essere utile a tutte le persone che continuano a riconoscersi nella storia e nelle sigle della “sinistra radicale” (ci riferiamo qui essenzialmente a Rifondazione Comunista). La tesi che intendiamo sostenere è che in questa storia c’è un errore di fondo, che ha prodotto fin dall’inizio significative storture rispetto alle importanti e condivisibili istanze a cui la nascita di Rifondazione voleva dare espressione politca.
Per capire questa tesi, occorre ricordare rapidamente il clima in cui si svolse, nel 1991, la dissoluzione del PCI e la nascita del PDS e di Rifondazione. Allora (e negli anni a seguire) il contrasto fra Rifondazione e “sinistra moderata” viene letto come il contrasto fra chi vuole conservare la radicalità anticapitalistica e gli ideali di giustizia sociale, da una parte, e chi ha scelto di adattarsi al capitalismo limitandosi al più a “temperarne” gli eccessi, dall’altra. In sostanza, il mantenimento del nome “comunista” e della simbologia correlata viene visto (sia dai suoi fautori sia dai suoi detrattori) come “strumento e segno” di una perdurante intenzionalità anticapitalistica ed emancipativa. A mio avviso è questo l’errore originario alla base di tutte le storture successive. Cercherò di argomentare questa tesi nel seguito, ma posso subito dire che essa si riassume in una osservazione di Massimo Bontempelli (della quale non riesco a ritrovare la fonte, cito quindi a memoria): egli scrisse a suo tempo che proprio coloro che volevano conservare l’intenzionalità anticapitalistica e gli ideali emancipativi della sinistra storica, avrebbero dovuto abbandonare i simboli della tradizione comunista e rifondare, ma sul serio e su basi nuove, un progetto politico di radicalità anticapitalistica. Cerchiamo allora di argomentare queste tesi.
Nella nascita di Rifondazione Comunista confluiscono molte e diverse realtà politico-culturali, che per la nostra discussione attuale possiamo dividere in due filoni principali: da una parte alcuni settori del PCI, dall’altra alcuni settori del variegato mondo di quella che una volta era l’estrema sinistra. Si tratta allora di capire se era possibile, in quel momento storico, riprendere queste due tradizioni, magari fondendole in qualche modo, e su questa ripresa basare la costruzione di un soggetto politico anticapitalistico che conservasse il riferimento al comunismo. La risposta è un secco no: non era possibile farlo, e per questo un nuovo soggetto politico anticapitalistico avrebbe dovuto nascere, come appunto scriveva Bontempelli, sul distacco da quelle tradizioni, e quindi anche dal termine “comunista” e dalle simbologie ad esso legate.
Cerchiamo adesso di spiegare perché. Esamineremo rapidamente queste due tradizioni, avvertendo che si tratta, al di là delle somiglianze di facciata, di due tradizioni molto diverse, e che quindi diverse sono le ragioni che motivano il nostro giudizio. Un’altra osservazione preliminare è la seguente: le realtà politiche che nel Novecento, nei paesi occidentali, si sono richiamate al comunismo, hanno a mio avviso evidenziato notevoli componenti di ideologia, nel senso marxista di “falsa coscienza”. Hanno cioè prodotto un tipo di coscienza di sé che era piuttosto lontana dalla realtà. Di fronte a questo fatto, applicheremo l’ovvio principio metodologico di guardare a quello che la gente fa, e non a quello che dice, per capire l’essenza di una realtà politica.
Cominciamo con l’esaminare la realtà del PCI. Il PCI ha rappresentato un “pezzo” importante della storia del nostro paese a partire dalla Resistenza e fino al suo scioglimento, diciamo dal ’43 al ’91. Cosa ha fatto il PCI in questo periodo? In primo luogo, ha contribuito alla lotta di liberazione e alla stesura della Costituzione (e quindi all’instaurazione di una democrazia liberale con forti componenti di giustizia sociale). Dopo la guerra il PCI ha sostanzialmente sostenuto tutte le lotte di rivendicazione di redditi e diritti da parte dei ceti popolari e più in generale tutte le istanze di “modernizzazione” del paese. Ha inoltre amministrato varie realtà locali, in modo generalmente riconosciuto efficace. In definitiva, se si guarda a ciò che il PCI ha realmente fatto, appare chiaro che la sua azione è stata quella tipica di un partito riformista e socialdemocratico. L’ovvia differenza sta nello schieramento internazionale: il PCI era filosovietico e questo ne impediva la partecipazione al governo nazionale, rendendo così difficile una azione riformista e socialdemocratica diciamo “classica”. Ora, se questa, detta in maniera sintetica, è effettivamente la natura del Partito Comunista Italiano, quella cioè di essere una “socialdemocrazia filosovietica”, possiamo rispondere alla domanda se c’è in questo “comunismo” qualcosa a cui ci si possa riallacciare direttamente. Se abbia senso cioè per un partito anticapitalistico oggi definirisi “comunista” facendo riferimento a questa tradizione. Ora, non c’è certo molto da dire sull’aspetto “filosovietico”: non credo che nessuno possa oggi rivendicare il filosovietismo e pensare di fondare su questa base un movimento politico anticapitalistico che abbia qualche senso. Ma anche concentrandosi sull’aspetto “socialdemocratico” del PCI, quello che è certamente più valido e che ha maggiormente contribuito al progresso del nostro paese, è evidente che non ha senso rivendicarlo sotto l’etichetta del “comunismo”: il fatto che il PCI abbia fatto una politica riformista e socialdemocratica sotto lo slogan del “comunismo” è chiaramente un limite e un errore, non qualcosa che possa essere ripreso e utilizzato oggi. Il fatto di fare una politica riformista sotto le bandiere del comunismo ha indebolito quella politica, non l’ha rafforzata, perché ha reso fin troppo facile alle forze antiprogressiste opporsi alle richieste progressive indicando nella società sovietica, che nessuno in Italia voleva, lo sbocco logico dell’azione del PCI. Più in generale, quello che il PCI in questo modo ha creato è un massiccio strato di falsa coscienza fra i suoi militanti e più in generale fra il popolo di sinistra. E mi sembra difficile che una nuova forza anticapitalistica possa oggi proporsi come obiettivo la falsa coscienza, il “raccontarsi storie”, il non avere una chiara coscienza di ciò che si è e di ciò che si fa. Del resto, se si vuole riprendere il discorso del riformismo del “trentennio dorato” del dopoguerra, occorre partire dalla coscienza che quel periodo è finito da almeno trent’anni, che i ceti dominanti stanno distruggendo sistematicamente tutte le conquiste dei ceti popolari, e che i partiti una volta riformisti sono diventati gli strumenti di questa distruzione. Il PCI e i suoi eredi “moderati”non fanno eccezione. Il fatto di essersi chiamato “comunista” ha rappresentato, per il PCI e i suoi eredi “moderati”, un freno, un ostacolo al processo degenerativo che ha coinvolto l’intera sinistra occidentale? Appare chiaro che la risposta è no. E allora ha senso richiamarsi a questo “comunismo” che nei suoi momenti migliori ha solo nascosto e deformato la realtà di una politica riformista e socialdemocratica, e poi non ha in nessun modo impedito la degenerazione del partito? La nostra risposta è, chiaramente, no.
Passiamo adesso a discutere l’altra tradizione che è parzialmente confluita in Rifondazione, e alla quale si potrebbe fare riferimento per continuare a parlare di “comunismo”, la tradizione cioè delle varie correnti minoritarie ed eterodosse, che nascono già negli anni Venti del Novecento e si moltiplicano e declinano all’infinito in ottanta o novant’anni di storia nei paesi occidentali. Come dicevamo all’inizio, si tratta di una tradizione molto diversa dalla precedente, nonostante l’uso di simboli analoghi. Infatti, la tradizione del PCI è quella di una realtà che ha fatto la storia del nostro paese, che è esistita concretamente e ha concretamente operato. Se parliamo degli infiniti rivoli dell’estremismo di sinistra, dobbiamo per prima cosa focalizzare questo punto: si tratta di realtà che non sono mai esistite nella realtà concreta, che non hanno mai inciso sulla storia reale. Per chiarire cosa intendo dire può servire il riferimento metaforico a un concetto matematico, quello di “insieme trascurabile” o “insieme di misura nulla”. Si tratta di un concetto astratto che può essere illustrato con un esempio concreto. Supponiamo di affrontare un problema di calcolo di volumi, per esempio il calcolo del volume di una sfera, intesa come un oggetto solido, tridimensionale. Quando parliamo del volume di una sfera, intendiamo oppure no includere in essa la superficie sferica che la delimita? La risposta è che la cosa non ha nessuna importanza: la superficie sferica, in quanto superficie, ha volume uguale a zero, quindi includerla oppure no non fa nessuna differenza, per quanto riguarda il calcolo del volume. Un “insieme trascurabile” è un oggetto di questo tipo: un oggetto che esiste, che può essere studiato e approfondito, ma che non ha nessuna rilevanza rispetto al problema che stiamo indagando. Appunto come una superficie quando si parla di volumi. Ecco, l’intero mondo dell’estremismo di sinistra nei paesi occidentali, è un oggetto trascurabile in questo senso: è esistito, è pure interessante da studiare, entro certi limiti, sul piano della storia delle idee, ma è del tutto trascurabile sul piano della storia politica, economica e sociale, sul piano dei rapporti di forza, della capacità di incidere concretamente sulla realtà. Basti pensare al fatto che tale mondo si è sempre definito “rivoluzionario” in contrapposizone al “riformismo” dei partiti ufficiali del movimento operaio. Ma si tratta di rivoluzionari che non hanno mai fatto una rivoluzione, e questo sarebbe ancora poco (perché una rivoluzione la si può tentare ed essere sconfitti): si tratta di “rivoluzionari” che non si sono mai nemmeno lontanamente avvicinati non diciamo a fare una rivoluzione, ma nemmeno a preparararla, nemmeno a fare i primissimi passi nella direzione di una rivoluzione. E non solo non hanno mai fatto una rivoluzione, ma non hanno neppure in nessun altro modo mai inciso sulla realtà politica e sociale, non hanno neppure mai potuto lontamente erodere il consenso dei partiti tradizionali del movimento operaio presso il proletariato, e sono rimasti sempre piccoli gruppi ininfluenti e ignorati dai più. E tutto questo non può dipendere da errori e limiti di alcuni individui: stiamo parlando di un fenomeno che riguarda l’intero occidente da circa settanta o ottant’anni. Nei paesi più diversi, nelle situazioni più diverse, a partire dalle ideologie e dai ceti dirigenti più diversi, il mondo dell’estremismo di sinistra ha sempre riprodotto la propria inutilità. Per capire i motivi di questa ostinata volontà di essere inutili, dobbiamo anche qui applicare il principio del guardare a ciò che la gente fa e non a quello che dice. Cosa fanno, da ottanta o novant’anni a questa parte, questi “rivoluzionari”? Essenzialmente producono scritti e analisi e li diffondono in vari modi (riviste, libri, volantini, iniziative pubbliche). Le forme esteriori di questa diffusione di scritti sono quelle della politica, ma in realtà questi piccoli gruppi sono del tutto incapaci di fare politica (nel senso di una politica che incida sulla realtà). Se dobbiamo cercare una analogia, essi appaiono in sostanza come dei piccoli circoli culturali fortemente specializzati su particolari temi di politica ed economia. E vista la totale incapacità di fare politica, di incidere sulla realtà, che è tipica di tutta la storia di tutto questo mondo, dobbiamo concludere che questo non può essere un errore o un incidente ma è, evidentemente, la loro ragion d’essere: si tratta di piccoli gruppi di persone che non vogliono confrontarsi con la realtà, incidere in essa, e che invece di scegliere la via del monastero, della solitudine e della meditazione sull’eternità scelgono (per motivi che andrebbero approfonditi sul piano psicologico, ma non è questo il luogo) di fare i “monaci marxisti”, di chiudersi nelle catacombe di qualche piccolo gruppo “rivoluzionario” e lì raccontarsi qualche strana favola sulla politica e la rivoluzione.
Si tratta insomma, anche in questo caso, di una tradizione che presenta un tasso altissimo di falsa coscienza, di illusione su di sé. Non si vede allora davvero in che senso si possa trovare in questa tradizione un modo per rivitalizzare la nozione di “comunismo”, per farne la base di una nuova forza politica. La caratteristica precipua di questa tradizione è piuttosto il rifiuto della politica, l’incapacità di incidere sulla realtà, l’impotenza totale, fantasmaticamente sublimati come coerenza rivoluzionaria e profondità di analisi. E’ evidente, mi sembra, che chi vuole costruire una vera forza politica anticapitalistica deve piuttosto rompere con questa tradizione e denunciarne i limiti.
Una volta esaminate le due principali tradizioni confluite in Rifondazione Comunista, appare evidente che è impossibile da esse ricavare una nozione di “comunismo” che abbia oggi un senso e un valore per una forza politica anticapitalistica. Questo purtroppo non è un caso. Si tratta della conseguenza di un altro fatto, in realtà molto semplice, e che sarebbe davvero il momento di accettare fino in fondo: non esiste, da ottanta o novant’anni, nessuna prospettiva comunista nei paesi occidentali. I comunisti sono spesso piuttosto vaghi quando si chiede loro cosa possa mai voler dire, oggi, essere comunisti. A mio modesto avviso, un comunista dovrebbe essere qualcuno che vuole il comunismo, e il comunismo dovrebbe essere un progetto generale di una organizzazione sociale ed economica diversa dall’attuale e migliore di essa. E affinchè il comunismo sia una realtà politica, e abbia quindi senso l’esistenza di un partito comunista (in quanto realtà diversa da un circolo di discussioni filosofiche sul comunismo), vi deve essere un progetto politico che possa portare in tempi ragionevoli a compiere passi significativi nella direzione voluta. Il comunismo deve cioè essere un obiettivo rispetto al quale si possano indicare una serie di azioni politiche che ragionevolmente lo possano avvicinare. E la prospettiva di significativi cambiamenti nella direzione del comunismo deve essere qualcosa che può essere verficiato, almeno nel medio periodo. In sostanza, ha senso che esista un partito comunista se il comunismo è una concreta possibilità politica. Ora, dovrebbe apparire evidente che, se mai è esistita questa “possibilità concreta del comunismo” in occidente, essa non esiste più da ottanta o novant’anni: diciamo dalla metà degli anni Venti (ma non sono importanti le date precise, ovviamente). Da ottanta o novant’anni, il comunismo in occidente è una irrealtà. E questo non vuol dire solo, ovviamente, che in occidente non c’è il comunismo, ma vuol dire che nessuno è in grado di indicare una strada politica concreta, ragionevole, sensata, percorrendo la quale si possa dire che ci si avvicina realmente ad una società comunista (qualsiasi cosa si intenda con questa espressione).
Di fronte a questa irrealtà del comunismo, è del tutto ovvio che chi continuava a richiamarsi ad esso aveva solo due possibilità: o rientrare nella realtà, e quindi abbandondare ogni richiamo concreto al comunismo e farne solo una copertura ideologica di una pratica di tutt’altro tipo (ed è la scelta del PCI), oppure restare fedeli all’irrealtà del comunismo e uscire così dalla realtà storica concreta: è la scelta dell’estremismo di sinistra, che in questo modo si riduce a vivere l’esistenza spettrale di un ectoplasma. Il comunismo è tornato ad essere uno spettro, ma uno spettro che non fa più paura a nessuno, e che anzi, nel suo carattere “innocuo e folkloristico” (parole di Prodi), può avere una limitata utilità per i ceti dominanti, come dimostra l’esperienza dei governi di centrosinistra in Italia.
Possiamo finalmente avviarci alla conclusione, alla modesta proposta alla quale si accenna nel titolo di questo articolo. Essendo il risultato della confluenza di due tradizioni entrambe del tutto incapaci di fondare una realtà politica anticapitalistica adeguata ai tempi attuali, il Partito di Rifondazione Comunista nasceva con gravissimi limiti. E’ inutile discutere adesso se essi potevano essere superati oppure no. Di fatto non sono stati superati e hanno portato alla sostanziale dissoluzione del partito. Cosa potrebbero fare militanti e dirigenti di quel partito? Credo che dovrebbero prendere atto di questa situazione e convocare un congresso straordinario mettendo all’ordine del giorno la proposta di scioglimento del partito e di costruzione di una nuova forza politica anticapitalistica. Una tale nuova forza politica dovrebbe abbandonare definitivamente la parola “comunismo” e le simbologie ad esso legate, acquisendo finalmente la coscienza che, nella situazione attuale, quella parola e quelle simbologie non sono garanzia di radicalità anticapitalistica, ma, tutto al contrario, sono la compensazione simbolica di una reale impotenza politica. Come ho già scritto altrove, abbandonando il “comunismo” non avete da perdere che le vostre catene, e un mondo da guadagnare.
(M.B.)
Matteo Gaddi, Luigi Vinci
4 marzo 2013
Lettera aperta alle compagne e ai compagni di Rifondazione Comunista
Care compagne, cari compagni,
quelli che ci conoscono sanno del nostro dissenso rispetto agli orientamenti praticati dal partito da poco dopo il Congresso di Chianciano; un dissenso prima parziale, poi molto ampio. Ciò nonostante abbiamo tenuto la tessera, militato in modo disciplinato, dato una mano, difeso il partito, prospettato le nostre critiche in termini costruttivi e, quando pubbliche, argomentando politicamente e formulando proposte. Ora però sentiamo l’obbligo di esprimerci senza autocensure: le elezioni ci sono state, si sono chiuse come da noi previsto e cioè con un disastro tale dell’inconsistente e velleitaria lista Rivoluzione Civile da rappresentare, in buona sostanza, la fine dell’esistenza politica di Rifondazione Comunista. Le possibilità di ripresa politica effettiva del partito sono a zero. Orientata pertinacemente dopo Chianciano in senso settario ed estremista, la sopravvivenza del partito, se sarà tentata, sarà simile a quella delle tantissime sette trockiste, bordighiane, staliniane. Questo ci libera da ogni vincolo di appartenenza.
Non però dall’impegno di discutere. Sicché diciamo subito che ciò che riteniamo dovrebbe impegnare compagne e compagni è, finalmente, un ragionamento di verità, che muova dunque prendendo atto di come Rifondazione Comunista sia stata tumulata e di come quest’esito si debba esclusivamente all’insipienza globale della sua segreteria nazionale, autocostituita da tempo, sulla base di patti di potere prescindenti dalla politica, in micro-autocrazia incontrollata. Da ciò poi deriva, sempre a parer nostro, che il problema obiettivo, reale, da ragionare non sia su come e su quale linea ricominciare per l’ennesima volta a raddrizzare il partito, bensì su che cosa vada fatto per evitare il generale dissolvimento della nostra militanza organizzata, collettiva. A sua volta questo comporta una discussione non più incanalata e regolata dal lato del centro del partito. Infine, quest’ultima cosa significa che le realtà locali debbano dichiarare la propria autonomia totale dal centro nazionale, evitare così di perpetuare il suo comando e di creare una situazione che gli consenta di tentare il bis di Rivoluzione Civile o qualche altra stranezza. Attenzione! Impedite che ulteriori sedi locali, frutto dei sacrifici dei militanti, vengano messe in vendita per continuare ad alimentare i protagonisti di un tale fallimento generale del partito!
Benché le responsabilità di tale fallimento siano della segreteria nazionale nella sua interezza, il ruolo del compagno Ferrero nel determinarlo è stato assolutamente speciale. Il settarismo nei confronti di SEL, del PD, della CGIL è stato una sua creatura. Lo è stato il rinvio di quattro anni di un congresso che andava fatto subito dopo la scissione operata dal gruppo facente capo al compagno Vendola, come lo è stato l’aver impedito ogni discussione in preparazione dello scorso congresso, e come lo è stato il rifiuto di aprire la direzione del partito a quadri espressi da situazioni locali importanti. Lo è stato il rifiuto di porre termine alla divisione del partito in fazioni organizzate, cominciando con la fusione di quelle che avevano dato vita, in vista del Congresso di Chianciano, alla mozione 2 (Ferrero-Grassi). Lo è stata la discriminazione ingiuriosa praticata nei confronti dei nostri militanti partecipi dell’area CGIL Lavoro-Società, come lo è stato l’impedimento a trasformare la Federazione della Sinistra in soggetto politico effettivo. Ogni elemento di divergenza politica o anche solo il sospetto che se ne potesse manifestare una hanno sempre portato il compagno Ferrero a operare il rinvio della discussione ed emarginazioni, allo scopo del mantenimento del proprio controllo personale sul partito e dell’imposizione a esso di posizioni sempre più settarie ed estremizzanti.
Uno strumento efficacissimo in questo senso, a cui tutti i vertici di fazione si sono prestati, è stata la perpetuazione delle “aree” costituite sulla base delle appartenenze politiche precedenti quella in Rifondazione Comunista. Inoltre quanti in segreteria non condividevano, come è stato a lungo, le posizioni e il modo di direzione del compagno Ferrero hanno sempre, di fatto, lasciato correre. Lo stesso vale, quanto a dissoluzione della Federazione della Sinistra, per il gruppo dirigente del PdCI. Non si tratta di responsabilità di pari livello rispetto a quelle del compagno Ferrero; hanno loro parziali giustificazioni, il timore di aprire la strada a rotture organizzative così come il settarismo verso sinistra del PD: tuttavia hanno concorso esse pure alla determinazione del disastro. Agendo per tempo si sarebbe potuto operare a evitarlo. Non era per niente obbligato, dunque, che Rifondazione Comunista venisse distrutta. Ogni evento analogo dentro al movimento operaio è avvenuto sempre a seguito del concorso tra attività ostili di forti avversari politici, rapporti di forza negativi in sede politica e sociale e reiterazione di cantonate gravi da parte dei gruppi dirigenti. Senza queste ultime la via d’uscita si è sempre trovata.
A seguito di tutto questo la crisi politica italiana e, in essa, delle egemonie sociali, che non riguarda solo le cosiddette prima e seconda repubblica ma anche le forme della critica socialista organizzata al capitalismo, di quella del PCI come di quella delle componenti non sballate della nuova sinistra, tra cui fu DP, tende ora a chiudersi nel modo peggiore: senza in Italia un partito di sinistra di classe rappresentativo, influente, capace di contare.
Entrando meglio nel merito, gli errori distruttivi imposti dal compagno Ferrero a Rifondazione Comunista hanno nomi precisi: l’incapacità di accettare il carattere democratico della gestione, aggravata dalla tendenza a risse organizzative, risse ideologiche passatiste, patti di potere e lottizzazioni; un settarismo incapace di concepire anche la sola possibilità di convergenze parziali con le forze di centro-sinistra sul terreno della difesa della democrazia e di quella delle condizioni di esistenza popolari e del mondo del lavoro; l’attitudine ad “analisi” dominate dall’invenzione di invincibili spauracchi, dal fiscal compact alla BCE, così come dall’invenzione di un compatto allineamento del PD e addirittura della CGIL alla destra liberista; l’attitudine, quindi, a isolare, insettarendola, ogni piccola realtà radicalizzata di movimento o di lotta rispetto al grosso delle classi popolari, al loro modo di porsi le questioni, di agire, ecc. Per questa via e con questi mezzi è stato impedito al partito di cogliere la crisi che stava montando della gestione liberista dell’Europa, la sua tendenziale paralisi, la crisi e la messa in discussione del credo liberista nelle socialdemocrazie europee e nel PD, la radicalizzazione dei grandi movimenti sindacali, insomma l’apertura di varchi parziali, quindi la possibilità di lottare per creare argini e trincee; ovvero si è impedito al partito di vedere e di ragionare a proposito di ciò che l’universo mondo vedeva e ragionava. Si è così impedito a compagne e compagni di ragionare su come rendersi efficaci anche politicamente sul terreno della difesa popolare e della democrazia, riducendone così l’impegno alla raccolta di firme dal lato di iniziative di movimento, dove certo sono stati utili, ma al tempo stesso invisibili. Siamo risultati addirittura incapaci, di conseguenza, di fare dell’iniziativa referendaria su art. 18 e art. 8 un tema della nostra campagna elettorale. Francamente non si capisce perché mai il voto popolare avrebbe dovuto prenderci in considerazione.
Lo stato soggettivo attuale della militanza del partito, caratterizzato largamente dalla confusione e dalla depressione, è tra i frutti più nocivi dei quattro anni e più di errori e di assurdità che ci separano da Chianciano. Altro frutto nocivo è la diffidenza e sono gli odi che separano tanti militanti, ossessivamente inquadrati in “componenti”, “aree”, sottocomponenti, “sensibilità”, in altre parole in insulse camarille. Invitiamo compagne e compagni a evitare la riproduzione di questo tipo di situazione: che si cominci a parlare democraticamente, ascoltandosi e rispettandosi è tra le condizioni necessarie della continuazione della militanza stessa in forma collettiva. Questa discussione inoltre deve abolire in radice la sloganistica settaria, la tendenza a comiziare, le pseudocategorie e le pseudo-analisi. La verità, come ebbe a dire Lenin, è sempre concreta.
Ci permettiamo a questo riguardo un esempio, perché sia più agevole la comprensione del senso di fondo della nostra critica, inoltre della nostra proposta, che esporremo tra poco, su come continuare la nostra militanza collettiva. L’esempio riguarda la cosiddetta “radicalità”, pseudo-caratterizzazione d’obbligo, una sorta di mantra, della sinistra “radicale”. Come sempre accade quando vengano inventate categorie di analisi o politiche fasulle, anche la “radicalità” è una parola che può significare tutto e il contrario di tutto. Può quindi essere rappresentativa di elementi di realtà, ma anche risultare fuorviante nel rappresentarne altri. Se per radicalità intendiamo il comportamento del nemico di classe e delle sue agenzie politiche dirette, in Italia, in Europa e in Occidente, nei riguardi delle condizioni di vita popolari e delle conquiste storiche del mondo del lavoro, diciamo una cosa vera. Se per radicalità intendiamo le forme di mobilitazione e di lotta di segmenti di popolo o di mondo del lavoro o di giovani o di donne in situazioni e in momenti specifici, diciamo ancora una cosa vera. La diciamo anche se chiamiamo radicalità l’esasperazione di tanti operai, precari, disoccupati, gente di popolo. Invece prendiamo un abbaglio colossale se per radicalità intendiamo la linea e la pratica che un partito di classe anticapitalistico dovrebbe proporsi sempre e comunque di praticare e al tempo stesso proporre alle classi popolari. La radicalità o meno della linea proposta alle classi popolari è il risultato di un ragionamento sui rapporti di forza e sulle intenzioni, le richieste e il grado di unità, di determinazione e di capacità di mettere a fuoco il nemico nel mondo del lavoro e nelle classi popolari in genere. Ragionare altrimenti è, storicamente, puro romanticismo anarcoide; è una delle varianti politico-culturali espresse dalla microborghesia semicolta quando riesca a piazzarsi alla testa di un’organizzazione del movimento operaio e a monopolizzarne autoritariamente e burocraticamente il controllo. Purtroppo anche di questa natura è l’abbaglio che ha distrutto Rifondazione Comunista, e ciò che, di conseguenza, caotizza la riflessione, non da ora, benché ora più che mai, del suo corpo militante.
L’osservazione non preconcetta della situazione porta a osservare molte cose, che l’obbligo oggi della “radicalità” decisamente sconsigliano al partito di classe. Eccole. I rapporti di forza tra le classi sono tremendamente squilibrati a favore della borghesia capitalistica. La condizione soggettiva delle classi popolari le vede politicamente fratte, inoltre senza la presenza di un partito di classe egemonico, o anche solo con buone basi di massa; né questo vuoto può essere riempito adeguatamente dall’esistenza della CGIL, certo da tempo l’unica posizione di sinistra di massa, ma resa debole proprio dal fatto che non c’è un tale partito e dal fatto che questo vuoto non può essere riempito da quella parte di PD che guarda a Bersani o che è alla sua sinistra, essendoci nel PD anche forti componenti liberiste, e ancor meno può essere riempito dalla sinistra “radicale”, per come è ridotta, SEL compresa, inconsistente com’è in sede di militanza. Non solo: l’esasperazione popolare, secondo un’attitudine europea ormai storica, tende a trasformarsi in parte congrua anche in adesione passiva a formazioni populiste caratterizzate da una violenta pulsione antidemocratica e anti-operaia. Il fenomeno politico M5S non è esattamente questo, poiché recupera molte posizioni di sinistra, tuttavia appare animato anche da questa pulsione. In ultimo ricordiamo come la virtuale totalità delle richieste popolari, inoltre le rielaborazioni in risposta a queste richieste operate dalla totalità delle formazioni politiche e sindacali, quali che ne siano le posizioni, riguardino obiettivi di difesa immediata delle condizioni di vita del mondo del lavoro, dei giovani, delle donne, dei territori disastrati da questo o quell’intervento orientato a ingrassare senza rischi il grande capitale industriale e finanziario; nella migliore delle ipotesi, riguardino obiettivi di redistribuzione meno classista-borghese del reddito. Cosa sono, se non lotte eminentemente difensive, anche quelle prospettate come ultraradicali, da quella contro la TAV in Val di Susa a quella contro la privatizzazione dell’acqua? D’altra parte, è risibile ritenere che spontaneamente possa avvenire qualcosa di più effettivamente “radicale” da parte delle classi popolari, cioè di anticapitalistico, dato il suicidio del loro tradizionale partito anticapitalistico di massa, il PCI, data l’involuzione liberista organica che fino a tempi recenti ha riguardato le formazioni di centro-sinistra e lambito la stessa CGIL, dato il fallimento di Rifondazione Comunista.
Bisogna finalmente capire, dunque, che in luogo delle fantasie, degli anatemi e degli espedienti elettorali ci vuole un lavoro serio, paziente, di lunga lena. Ci vuole la capacità di accorgersi che la richiesta delle classi popolari è sempre quella dell’unità tra le forze politiche a cui esse guardano, con tanta o poca fiducia, sia quando esista la possibilità di una vittoria politica che quando, come adesso, si prendano botte da orbi. Certamente la richiesta popolare di unità contiene semplificazioni, per sua stessa natura: ma contiene pure una profonda verità, perché senza l’unità del popolo e senza, prima di tutto, il mondo del lavoro unito non si conquista nulla di significativo, anzi spesso si arretra, tanto o poco a seconda delle circostanze generali. Non tener conto di questo risulta sempre politicamente suicida.
La discussione che proponiamo alle compagne e ai compagni di Rifondazione Comunista, dovrebbe toccare più punti. Intanto, e lo abbiamo già accennato, questioni elementari di costume: basta con le fazioni e le clientele, basta con i burocrati autoritari, basta con l’inesistenza di livelli anche minimi di democrazia, basta con i comizianti, i ciarlatani, i carrieristi.
In secondo luogo c’è da ripulire l’analisi della realtà e il modo stesso di impostare l’analisi della realtà. Basta con le categorie fasulle, piedi per terra, concretezza. La nostra gente è in estrema difficoltà e chiede di essere aiutata al livello prima di tutto delle sue necessità elementari, dunque necessita più che mai di schieramenti larghi, pur vedendo molto bene i difetti delle forze politiche organizzate che dovrebbero fare parte di questi schieramenti.
In terzo luogo c’è da ricostruire la nostra organizzazione politica; e, va sottolineato, ciò può avvenire solo ripartendo da capo. Si è già detto: rapporti tra compagni e non tra nemici, democrazia, ecc. Ma, anche, ricostruzione delle forme di organizzazione mirando ad alcuni obiettivi di fondo. Il primo obiettivo è la proiezione reale, non a chiacchiere o solo propagandistica, del partito verso il mondo del lavoro. Il secondo è la sua proiezione verso l’universo giovanile, in via di pauperizzazione e, per chi abbia più fortuna, di proletarizzazione; come tale, alleato naturale, e già oggi per molti aspetti spontaneo, del mondo del lavoro. Il terzo obiettivo è la ricostruzione di una cultura politica che renda le compagne e i compagni più capaci di analisi concrete, di costruirsi giudizi realistici, di muovere critiche utili, di fare cose efficaci su vasta scala. Il quarto, la ricostruzione di una prospettiva di trasformazione socialista che sia realistica essa pure, quindi che abbia fatto tesoro dell’esperienza storica italiana ed europea, dei suoi momenti alti come delle sue sconfitte e delle sue tragedie, e che sappia fare grande tesoro dei significati generali delle nuove esperienze socialiste latino-americane. Il quinto, la ricostruzione di un’etica di partito, che oltre a essere democratica e solidale abbia come stella polare l’internità di ogni struttura, di ogni militante, di ogni quadro, di ogni rappresentante nelle istituzioni alle richieste, a quelle materiali in primo luogo, della nostra gente, degli operai, dei disoccupati, dei precari, delle donne supersfruttate in tanti modi, degli immigrati; che quindi li aiuti a organizzarsi, a difendersi, a lottare, a pesare e ad avere ruolo nella politica.
In brevi parole, ciò che occorre ricostruire in Italia, e ciò a cui occorrerà applicarsi da subito e ventre a terra, è un movimento politico ampio dei lavoratori. Le forme e le denominazioni le decideranno il processo stesso. E, in questa prospettiva, occorre cominciare da subito a costruire un partito indipendente, capace di ragionare e di fare in proprio, di muovere critiche alle sinistre “moderate”, parimenti capace di dialogare e di collaborare con esse su obiettivi parziali come in una prospettiva, definita piedi per terra, di governo. Non una setta occorre costruire, non ricostruire il cumulo di ogni velleità sconclusionata, non il cumulo di che abbiamo vissuto carrieristi, burocrati e agitatori di radicalismi altisonanti e cialtroni. Un partito di classe serio, un partito del lavoro responsabile dinanzi alla sua gente occorre invece costruire.
La posizione di Sinistra XXI. Non pensiamo sia incompatibile, purché ci sia serieta nell’analisi e concretà volontà di sostituzione dei gruppi dirigenti che hanno fallito la gestione della fase di transizione dalla Prima alla Terza Repubblica. Almeno un “rinnovamento nella continuità”.
http://joomla.sinistra21.it/organizzati/176-quattro-unita-della-sinistra-per-ricostruire-il-soggetto-di-classe
Nota dell’Esecutivo di Sinistra Critica
Pubblicato da fabur49 il 5 marzo 2013 in Politica, Terzo Congresso
Il coordinamento nazionale di Sinistra Critica si è riunito a Roma il 2 e 3 marzo per un’analisi del voto e della situazione politica. Da questo punto di vista sono stati prodotti due contributi analitici (a firma uno di Piero Maestri e l’altro di Francesco Locantore, Andrea Martini, Nando Simeone e Franco Turigliatto) che costituiscono l’allegato di questa nota.
Il Coordinamento si è soffermato, in particolare, sulla situazione interna a Sinistra Critica così come scaturita dall’ultima Conferenza nazionale dove, due diverse posizioni si sono fronteggiate e alla fine sostanzialmente eguagliate. Il lavoro degli ultimi sei mesi non ha prodotto significativi passi avanti nella convergenza tra quelle impostazioni che affrontano diversamente nodi analitici e teorici rilevanti e soprattutto si danno progetti di lavoro politico e strumenti di intervento differenti.
Il coordinamento ha deciso di affrontare con chiarezza questa situazione puntando a costruire una situazione nuova di Sinistra Critica in cui evitare di ripercorrere vecchi vizi e divisioni della sinistra di classe ma, allo stesso tempo, rispettando l’impegno di tanti e tante militanti che merita uno sforzo di trasparenza. In questo senso il coordinamento è giunto a una decisione unanime (con un astenuto) sulla necessità, opportunità e, si spera, utilità, di uno schema organizzativo nuovo. I-le militanti di Sc, infatti, decidono di dotarsi di in un quadro unitario fondato, sostanzialmente, sulla comune adesione al dibattito, al patrimonio e al progetto politico della corrente Quarta internazionale così come si è andata evolvendo nel tempo e come oggi si presenta nelle sue articolazioni internazionali: dal progetto del Nuovo partito anticapitalista francese, al dibattito latinoamericano fino alle nuove esperienze asiatiche. Un riferimento non dogmatico ma politico, culturale e “in progress”.
Da questa comune appartenenza discenderanno, nella prossima fase, due progetti politici in solidarietà tra loro ma distinti. Le forme e la natura dei progetti andranno meglio precisati ma, in larga parte, saranno il frutto degli orientamenti proposti all’ultima conferenza nazionale dai due documenti allora presentati (il documento nazionale e gli ampi emendamenti presentati). A livello locale, Sinistra Critica continuerà, in questa fase, a operare sulla base dei deliberati dei circoli. Il coordinamento si impegna, in uno spirito fraterno e di solidarietà, a gestire in comune le (poche) risorse finanziarie esistenti e il patrimonio di sedi, e a programmare appuntamenti di dibattito comune tra i due progetti. Il sito nazionale pubblicherà come posizione comune di Sinistra Critica i testi e le posizioni condivise e pubblicherà tutti gli altri interventi di analisi e di proposte con la firma della/e autrici o degli autori. Nel prossimo periodo dovremo meglio definire quale sia la nostra “casa comune” che mantiene questi rapporti solidali e allo stesso tempo il libero dispiegamento dei progetti.
Quello che avviamo è un percorso difficile, in parte obbligato e certamente inedito. Ci muove la volontà di non acuire, in maniera irreversibile, le divergenze che nel tempo abbiamo accumulato ma anche di non nasconderle, né a noi né ai nostri interlocutori. Le vicende della lotta di classe in Italia sono oggi particolarmente complesse e articolate e diversi i modi di affrontarle. Anche dotarsi di una modalità innovativa rappresenta un contributo al processo, complesso ma necessario, di una forte e nuova sinistra anticapitalista nel nostro Paese.
L’Esecutivo nazionale di Sinistra Critica
detto sinceramente, sarebbe bello che tu diventassi il Segretario …. per me lo sei già, piccolo grande Oggionni <3
IL CORAGGIO DELLA DISCONTINUITA’
Il risultato elettorale ci consegna un paese attraversato da una crisi profonda che investe non solo la sfera economico-sociale, ma anche quella politico-istituzionale. Una crisi la cui manifestazione più evidente è l’affermarsi di pulsioni populiste, di diversa ispirazione, verso le quali s’incanala il disagio sociale. Un disagio sociale profondo e crescente che non premia la sinistra in senso lato, o perché interna a orientamenti liberisti che sono responsabili del malessere sociale, o perché afona e incapace di rappresentare una domanda di cambiamento.
In questo quadro la vicenda della lista Ingroia è esemplare. L’aver raccolto le poche forze che si erano opposte alle politiche di Monti non è stato sufficiente. A maggior ragione nel momento in cui la proposta avanzata in campagna elettorale ha esaltato i temi della legalità anziché quelli sociali. Né tanto meno ha giovato l’azzeramento delle forze di sinistra ridotte a pure ancelle, private di alcuna visibilità. Ciò che si è verificato era quindi prevedibile: da un lato, la fuga verso il Movimento cinque stelle (in particolare dell’elettorato IdV come dimostrano le analisi dei flussi), dall’altro, verso più direzioni (è il caso dell’elettorato di sinistra).
La lista, quindi, ha mancato sul punto essenziale: intercettare il consenso di una sinistra orfana di rappresentanza. Come è stato giustamente notato, più che di una rivoluzione “civile”, avremmo avuto bisogno di una rivoluzione “sociale”. Così non è stato, per l’eterogeneità delle forze messe in campo, per l’influenza della deriva populista, per la sopravvalutazione dell’efficacia della personalizzazione. Ma è anche vero che noi, come partito, in quel contesto non siamo stati in grado di condizionare il percorso, non riuscendo a far emergere adeguatamente nella compagna elettorale proposte che dessero una risposta ai grandi temi posti dalla crisi (dalla disoccupazione, al reddito, alle nuove povertà). Senza contare alcune scelte subite, sicuramente devastanti, come quelle sulla composizione delle liste.
Il punto ora è che fare di fronte ad un esito così negativo, agli enormi problemi che si riverberano sull’esistenza stessa del partito e alla presenza di nuovi appuntamenti elettorali (dalle prossime amministrative, alle europee del prossimo anno, a possibili elezioni anticipate). A tale riguardo, bisogna essere consapevoli che l’errore più grande che si potrebbe fare è quello di sottovalutare la gravità della situazione, indugiare in atteggiamenti auto-assolutori, negare i nostri limiti. Perché i limiti vi sono stati. E non solo e non tanto nel modo con cui si è condotta la partita elettorale, ma soprattutto nel come ci si è arrivati, dopo anni d’inutili rincorse a progetti fallimentari, come quello della FdS, in mancanza di un impegno adeguato di radicamento sociale, e senza un’azione efficace nella costruzione di una sinistra alternativa, né subordinata né settaria.
Occorre allora il coraggio dell’auto-critica e, conseguentemente, di una scelta di “discontinuità”. Per farlo occorre attivare un percorso di discussione vera che conduca nei tempi adeguati a un congresso. Le dimissioni presentate dalla segreteria avviano tale percorso, ma vanno chiariti i tempi e i modi. E, infatti, un grande disagio percorre il partito, dove la volontà di un vero cambiamento si assomma al timore legittimo che tutto si risolva in un puro regolamento di conti. Per questo credo che il congresso non possa tenersi a breve, oltretutto vi sarebbe la difficoltà oggettiva rappresentata dalle elezioni amministrative di maggio. Inoltre, occorre un percorso che abbini il rilancio verso l’esterno (per esempio con una grande assemblea nazionale intorno al nodo del ruolo della sinistra in questa fase) con quello di un ripensamento profondo dei nostri limiti (per esempio con alcuni appuntamenti seminariali costruiti con un’ampia partecipazione), per giungere a un congresso a tesi aperte, in cui vi sia la possibilità di misurare non solo le differenze, ma anche gli elementi di convergenza.
In questo percorso vanno affrontati alcuni nodi. Il primo è quello politico. Le proposte che sono oggi in campo (dalla continuità dell’esperienza della lista Ingroia, alla costituente di un nuovo soggetto politico) sono profondamente inadeguate, per il semplice fatto che ripropongono, in un modo o nell’altro, la questione del contenitore, anziché quella dei contenuti e, peraltro, dopo esperienze fallite. Senza contare il fatto, che a sinistra prevale oggi la disgregazione e la disomogeneità, che le culture politiche oscillano fra le tentazioni dell’anti-politica e dell’assemblearismo carismatico, per non parlare del ruolo subordinato di SEL nel centro-sinistra. Pensare, magari con disinvolte operazioni di assemblaggio, di costruire a breve un’aggregazione significativa, in grado di entrare in campo con un progetto compiuto e con un consenso elettorale in grado di superare gli sbarramenti elettorali già molto elevati è perlomeno azzardato.
Essenziale è lavorare per la costruzione di una sinistra di alternativa fin da ora, ma con realismo, sapendo che i tempi non saranno necessariamente brevi, che non automaticamente ciò condurrà a esiti elettorali soddisfacenti e che, pertanto, anziché puntare su aggregazioni pasticciate, occorre lavorare sui fondamenti. E cioè: la convergenza reale sui contenuti delle proposte, un disegno politico chiaro, un’agenda d’iniziative mirata alla ricostruzione di un consenso sociale. Per fare tutto ciò occorre spazzare via alcuni approcci che si sono rivelati deleteri. Una sinistra di alternativa non può partire dal presupposto grillino della rottamazione dei soggetti politici e di un presunto primato della società civile, deve rimettere al centro l’iniziativa sulla condizione sociale a partire da quella del mondo del lavoro, deve rifuggire dalle tentazioni plebiscitarie celate dietro l’appello alla partecipazione. Per tutto questo al primo posto non va posta la precipitazione della soluzione organizzativa, ma una pratica unitaria effettiva. La modalità più credibile è quella dell’”unità d’azione” che non pregiudica alcuna scelta impegnativa, ivi compresa la convergenza elettorale.
Presupposto della costruzione di una sinistra di alternativa adeguata è l’esistenza di un soggetto politico che ne costituisca il motore. Questo oggi resta, con tutti i limiti, Rifondazione Comunista. Non vi è in questo nessuna supponenza, né alcuna tentazione autoreferenziale, ma una semplice constatazione. Basti pensare a chi ha garantito il maggiore impegno nelle campagne referendarie o nella stessa recente campagna elettorale. La titubanza con cui è stato rivendicato questo nostro ruolo, magari nell’illusione che il fare un passo indietro avrebbe consentito più ampie convergenze, è stata un errore. Lo è in particolare per un corpo politico generoso che si è speso in tutti i modi, spesso senza alcun riconoscimento, e che oggi per restare unito ha anche bisogno di avere una certezza, e cioè che questo partito ha ancora un ruolo e non è in liquidazione. Per questo credo sia un grave errore farsi attrarre da prospettive di auto-scioglimento in nuovi soggetti politici, peraltro del tutto evanescenti.
Il senso di sé è essenziale se si vuole sopravvivere e svolgere un ruolo a sinistra. Di fronte a quello che è avvenuto in questo paese, la riscoperta dello “spirito di scissione”, nel senso gramsciano di consapevolezza della propria alterità, è essenziale. Sarebbe tuttavia ingenuo ritenere che ciò sia possibile omettendo il riconoscimento dei nostri limiti e senza il coraggio di una profonda autoriforma. E’ necessario allora entrare nel merito di questi limiti che sono tanti, ma che in particolare attengono: alla scarsa capacità, non tanto di sostenere i movimenti, quanto di radicarsi in essi, a partire dalla presenza del tutto insoddisfacente nel sindacato; alla debolezza della cultura politica e all’esiguità degli strumenti formativi e informativi a disposizione dei nostri iscritti; a modalità organizzative inadeguate, di fronte alla rivoluzione dei sistemi comunicativi; all’assenza di un’autonomia finanziaria sempre più indispensabile.
Un’autoriforma è inoltre la condizione per attrarre nuove forze. E’ il tema evocato da molti, anche da quanti hanno insistito in questi anni sul tema dell’unità dei comunisti. E’ un nodo destinato a riproporsi e al quale occorre dare una risposta. Credo che Rifondazione debba essere un soggetto inclusivo e non porre limiti all’adesione di quanti credono nella necessità di una forza comunista. Credo, tuttavia, che l’esperienza negativa della FdS qualcosa ci abbia insegnato e cioè che dietro comuni riferimenti ideologici si celano spesso divergenze politiche rilevanti. La questione resta pertanto quella di sempre: i contenuti devono essere alla base dell’unità. Apertura quindi, ma anche rigore sulle scelte. Rispetto alle quali la questione essenziale è la vocazione “trasformativa” e non “adattativa” di un partito comunista, il suo ancoraggio alla concretezza della condizione sociale, prima che alla tattica delle alleanze.
L’autoriforma del partito, il suo adeguamento, resta un nodo fondamentale ma esso ha un baricentro e questo sta nella ricostruzione di una comunità solidale oltre che politicamente omogenea. Al primo posto resta cioè la questione della costruzione di un partito unito, in cui sia percepibile la solidarietà, in cui la dialettica politica sia trasparente e non strumentale, in cui vi sia rispetto e inclusione delle minoranze, in cui la selezione dei gruppi dirigenti avvenga sulla base prima di tutto del merito e delle capacità. Per questo non è più rinviabile il tema del superamento di una modalità di funzionamento che si regge al centro su un sistema decisionale pattizio e alla periferia sulla balcanizzazione. Lo scioglimento delle correnti e la costruzione di una democrazia fondata sull’ampio consenso nelle decisioni, restano forse la principale sfida che va oggi affrontata.
Gianluigi Pegolo
Ma Pegolo chi? quello che è in segreteria da vent’anni e che vive con due vitalizi e una pensione? proprio lui? e che nei giovani si fa rappresentare dalla quintessenza dell’opportunismo, quel napoletano Daniele Maffione che in tutti questi anni non ha fatto altro che cercare di posizionarsi e riposizionarsi per avere un posticino al sole (oltre che il disprezzo di tutti i veri militanti comunisti di Rifondazione)?
Ma scusa, questa è l’analisi di Pegolo. Mica ci sta scritto dentro che Pegolo si candida a dirigere il partito… Avete provato a leggere che ci sta scritto dentro invece che leggere solo la firma e scattare ? Attaccare
personalmente i compagni senza fornire uno spunto costruttivo ? Ma come ci hanno ridotto gli odii di corrente?
E siete certi al 100% che ai candidati che sostenete voi non si possano imputare le stesse cose che imputate a Pegolo e Maffione ?
La smettiamo di personalizzare la politica ? Io allo scorso congresso ho votato un documento, non una persona o un gruppo di persone. E non era quello unitario, quindi non potete dire che lo faccio per difendere la mia parte.
Per me la politica sono i contenuti di analisi e i progetti politici, non i culi da mettere sulle poltrone. Se continuiamo così poi per forza facciamo schifo alle persone.
Anche dalla nostra federazione siamo tutti convinti serve un rinnovamento radicale. nuovo segretario nuova segreteria idee fresche giovani, unità della sinistra e unità dei comunisti (Prc e Pdc’i devono stare insieme!)
Analisi condivisibilissima.
Necessaria quanto prima una “Costituente della Sinistra” e ovviamente largo ai giovani, quelli validi non mancano 🙂
Mi sembra interessante:
http://www.enricolobina.org/wp/2013/03/05/azzerare-la-classe-dirigente/
MI PARE DI SOGNARE A LEGGERVI. IO SONO STATO E SONO COMUNISTA, PERO’ MI PARE VERAMENTE CURIOSO CHE NOIALTRI CONTINUAMO A PARLARE DI COSE FUORI DEL MONDO. I COMUNISTI IN ITALIA SONO SPARITI, GRAZIE ANCHE A VOI (E NOI), TUTTI DOBBIAMO ASSUMERCI LA RESPONSABILITA’. PERO PERMETTETEMI UN APPUNTO. IO NON ME LA SONO SENTITA DI VOTARE RIVOLUZIONE CIVILE ANCHE PER IL SEMPLICE FATTO CHE ALLA SUA GUIDA, D FATTO, C’ERANO TRE (3) PUBBLICI MINISTERI: INGROIA, DI PIETRO E DE MAGISTRIS. DI RONTE A CIO’ I LEADERS COMUNISTI, COMPRESI VOI, DOVEBBERO NASCONDERSI MEGLIO FERRANDO, ALMENO DOPO IL PARTITO COMNISTA E’ DEI LAVAORATORI..
mi sembra un documento equilibrato e con proposte da discutere concordo sul fatto che si deve andare oltre il superamento del prc, per un nuovo soggetto politico da costituire che sia altro da tutto e con un gruppo dirigente che non veda nessuno come dirigente di coloro che hanno diretto il prc dal 2004 ad oggi.
massimo pasquini
Mi sembra giusto e doveroso che il gruppo dirigente rimetta il mandato dall’altro lungi da me fare la resa dei conti, anzi Io ringrazio tutti i dirigenti che comunque fino a qui hanno permesso che Rifondazione Comunista esista ancora nonostante le enormi difficoltà che tutti conosciamo.
Non mi dilungherei molto sull’analisi della sconfitta, solo due cose : 1)in un lasso di tempo così breve partendo già in un una condizione di grande svantaggio, visibilità, radicamento, possibilità economiche etc. è difficile arrivare alla gente, anche alla nostra. 2)l’aggregazione è troppo contraddittoria, pur avendo dieci punti importanti e significativi-è stato troppo evidente che il motivo era, per i personaggi noti, di andare in parlamento. 3) è stato sbagliato completamente il marketing elettorale, a partire dal simbolo e da quell’ostentata personalizzazione della lista. 4) nonostante la buona volontà, e ringraziamo per essersi prestato, ma il candidato premier ha mostrato tutti i suoi limiti, politici e mediatici.
a questo punto è evidente che non siamo risultati una novità, quel motore che potesse avviare un cambiamento nel panorama politico italiano, che come si sa i partiti e i politici riscuotono un bassissimo gradimento, la gente si è stufata ed ha visto in Grillo e M5s il terremoto che poteva cambiare qualcosa e così è.
Noi abbiamo bisogno di riflettere serenamente e almeno capire quello che non dobbiamo più fare, dopo di che diventa indispensabile mettere in campo un progetto politico nuovo di profondo cambiamento.
E’ da tempo che Rifondazione Comunista naviga a vista tra contingenze e tattiche, con generosità abbiamo dato vita e corpo alla Federazione della sinistra così come ci siamo impegnati in Rivoluzione Civile, oggi dopo l’ennesi debacle possiamo dire che quel modo di fare politica non funziona nè per i motivi per i quali siamo comunisti, nè per noi, continuare a pensare che i contenitori vengano prima dei contenuti o meglio, per costruire un contenitore eviti di approfondire i contenuti, stessa cosa per le correnti interne, chi pensa di continuare a gestire il partito con la logica di appartenenza, ferreriani, grassiani, falce martello, ex sel etc, non solo è risultato del tutto inutile sia dall’apporto che queste hanno dato all’analisi per capire la realtà sia per la costruzione di un progetto politico, l’unico risultato è stato la demotivazione degli stessi militanti.
I comunisti sono alcuni decenni che non rappresentano più il riscatto del proletariato per un mondo nuovo, per un uomo nuovo e fino a quando non riusciremo a elaborare un pensiero ed un progetto politico che sappèia guardare in avanti non sapremo cosa andare a dire alla gente.
Se siamo d’accordo che siamo di fronte ad una crisi strutturale del capitalismo che trova nella dittatura neoliberista del libero mercato la sua espressione più avanzata, noi abbiamo il dovere di contrapporre una visione del mondo e del futuro diversa, che sappia dare speranza alle classi più deboli, lavoratrici, lavoratori, proletari, giovani, pensionati- usciamo dalle logiche del difensivismo del passato che ci hanno assorbito molte energie e creato un po di schizofrenia ma rilanciamo un nuovo protagonismo della classe operaia nel mondo che ci prefiguriamo, cosa produrre, in che modo, a chi serve- Il lavoro deve essere al centro dobbiamo martellare che il lavoro è l’unico che crea ricchezza, chi si è arricchito o si arricchisce sfrutta il lavoro e l’ambiente in cui viviamo fino a renderlo impossibile- Altro che articolo 18 le lavoratrici, i lavoratori il proletariato dovranno essere i nuovi protagonisti dell’altro mondo possibile, dobbiamo fare tesoro delle lotte che ci hanno portato alla conquista dello statuto dei lavoratori, ma se non siamo in grado di elaborare un passaggio più avanzato, non abbiamo speranza per il futuro. La libertà e l’uguaglianza devono essere i principi che ci muovono verso una nuova stagione democratica con un protagonismo attivo della popolazione perciò la valorizzazione dei territori in un insieme di autonomia e visione globale per star bene tutti e non gli uni a scapito degli altri.
Serve ripensare alla democrazia rappresentativa che sta mostrando tutti i suoi limiti e non aver paura di modificare anche la costituzione in senso avanzato e non come le propongono gli attuali politici.
La cura e l’armonia con la natura che ci circonda saranno l’involucro dentro al quale elaborare le strategie economiche e strutturali.
La buona istruzione, la buona sanità, il buon welfare e la buona solidarietà-siamo in un sistema ormai incancrenito dove c’è poco da salvare c’è tutto da rivoltare e da cambiare sapendo che i tempi non sono brevi. In futuro se vogliamo che la popolazione mondiale stia decentemente si dovrà consumare meno, nel migliore modo possibile le cose dovranno durare ed essere reciclate, probabilmente basterà lavorare molto meno per lavorare e star bene tutti.
Quello che unirà tutti i comunisti non saranno le sigle ma il progetto politico, la gente vuole sapere dove vogliamo andare e cosa vogliamo fare, cioè quale mondo futuro ci immaginiamo-queso è indispensabile per poter parlare alle persone ed avere qualcosa da dire, altrimenti possiamo andare a correre nei parchi che ci rilassiamo di più
hasta siempre
Mirco
Mà state scherzando!!!
Sè la situazione del PRC,dopo queste elezioni è disastrosa,lo dobbiamo proprio a persone come GRASSI(una volta aveva tutta la mia stima) e il suo “braccio destro-sinistro” OGGIONNI,che negli ultimi anni(e Congressi)hanno anteposto la logica della fedeltà assoluta alla loro corrente,(inponendo dirigenti politici incompetenti,mà fedeli).
Puoi dare esempi concreto per piacere? A cosa ti riferisci?
Il problema non è ne Oggionni ne Grassi. Proviamo a non fermarci sulle persone, sulla personalizzazione del nemico ( che poi nemico non è, in quanto è un compagno, anche se magari è un compagno con una linea politica che non condividiamo).
Proviamo a riempire di contenuti politici le nostre arrabbiate analisi. Se cambiamo le persone e conserviamo le stesse mentalità non andiamo da nessuna parte. Certe dinamiche poi si ripetono con altre facce.
Invece che dire “Grassi brutto”, “Ferrero più brutto”, “Targetti puzza” o “Bellotti ha l’alito pesante”, sarebbe meglio dire quali sono le linee politiche che secondo noi sono utili o sbagliate. Dire quali sono le pratiche che ci piacciono e le pratiche che secondo noi allontanano i compagni e ci rendono un partito politico non attraente.
Smettiamola col tifo da stadio, e diciamo finalmente cosa vogliamo fare e dove vogliamo andare.
c’è poco da fare: prima capiremo che tutto il gruppo diirgente dei giovani comunisti (non quello filo-ferrero, ovviamente) ha il diritto di fare un passo in avanti e prima proveremo a togleire dal pantano il partito nel quale si è cacciato. spero che queste cose si potranno iniziaare a dire dal prossimo comitato politico nazionale. nella mia federazione lo stiamo già dicendo. e non c’abbiamo niente contro il povero Ferrero. ma in cinque anni a che punto ci ha portati? si può dire che la colpa sia la stessa di Oggionni o di altri? suvvia, siamo seri.
Quali sono le colpe dei Ferreriani, e perchè loro sono colpevoli e tutti gli altri no, scusa ? Te lo chiede uno che:
a) Non ha votato la vostra mozione e non ha troppa simpatia verso Ferrero e nemmeno verso Grassi.
b) Che desidererebbe superare la fossilizzazione delle attuali mozioni. Non perché penso che non debbano esistere differenze di idee al nostro interno, che si incarnano poi in mozioni congressuali. Ma le mozioni congressuali dovrebbero nascere e morire durante la durata di un congresso, sulla base di dissenso sulla linea politica da condurre, e poi non esistere più. Tutti i compagni sono uguali. Comunismo significa uguaglianza. Uno vale uno, mi verrebbe da dire, se non fosse uno slogan del nemico.
Spesso e volentieri le correnti e le mozioni riflettono più legami di simpatia e fedeltà personale di alcuni gruppi di persone piuttosto che reali divergenze politiche.
c) Ritengo che il fenomeno stesso di suddividere i compagni in categorie come “ferreriani”, “grassiani” “pegoliani” “targettiani” “falcemartellini” sia nocivo come la peste. Dovremmo essere tutti compagni. Invece ci sono compagni che vengono discriminati perchè hanno un’idea diversa. Mobbing.
d) Le linee politiche espresse dai congressi dovrebbero essere rispettate. I congressi non dovrebbero essere considerati solo come il luogo dove “ci si conta”. Non si dovrebbe fare un congresso ad ogni piccolo cambio di rotta, ma quando invece la linea politica cambia di 180° dal giorno alla notte allora forse ci vorrebbe.
L’ultimo congresso ad esempio non è stato preso tanto sul serio, tant’è che certe analisi erano già superate nel momento stesso in cui erano scritte. Si tende a considerare la politica politicista delle alleanze contingenti con altre forze politiche come più importante dei momenti di democrazia interna, e dei momenti dell’organizzazione della vita e del lavoro dei circoli, tanto gli attori veri non sono gli iscritti ma il gioco delle mozioni….
Tanto l’importante sono le elezioni e gli eletti, non il radicamento e l’organizzazione nella e della società.
Io dico forte “NO” a tutto questo e urlo tutto il mio disgusto. Queste sono pratiche malsane che mortificano i compagni, che ce li fanno perdere per la strada.
E io mi metto tra i colpevoli del disastro del nostro partito, perchè questa degenerazione non ho avuto la forza di impedirla. Ma non ho mai smesso di combatterla e continuerò a farlo.
Hai perfettamente ragione, non è certo Oggionni la soluzione. Ma idee nuove e facce nuove, a partire da quelle migliori e più intelligenti sicuramente servono… E un cambio della guardia ragionato può servire! O andiamo a prenderci i nuovi dirigenti fuori dal partito oppure iniziamo a guardare tra noi distinguendo chi ha esaurito la propria funzione da chi qualcosa può iniziare a dirla.
Firenze … leggendo in giro ( non tanto qui ! ) interventi e contributi c’è da domandarsi se l’epidemia di MUCCA PAZZA sia veramente finita o si sia invece trasferita dai Bovini alle scimmie antropomorfe umane ! L’essenziale dell’analisi, critica, verte sugli ERRORI del Gruppo dirigente … ovvero sul PRC … l’oggettività dei fenomeni NON sfiora le menti degli STRATEGHI postumi ! Possibile che TUTTI questi MarxistiLeninistiGranscianiNovisti NON abbiano minimamente rivolto la loro -preziosa- e illuminante attenzione alle caratteristiche della NOSTRA Società … plasmata certamente NON da NOI ( PRC ) … ma dal CAPITALISMO -Maturo- ( alias Imperialismo leninisticamente inteso ! ) in palese CRISI ! Ovvero che l’Ideologia -Piccolo Borghese- ormai PATRIMONIO di tutte le Masse Popolari ( compresi gli “Operai” ! ) fa Sragionare la stragrande maggioranza della popolazione … è la classica REAZIONE della -Piccola Borghesia- ( Non sociologicamente intesa … ma il così detto appunto “Senso Comune” ! ) che cerca disperatamente e ridicolmente di EVITARE il processo di PROLETARIZZAZIONE in corso quale effetto appunto della CRISI del Sistema ! Non a caso si sono affermate elettoralmente soggetti o Demagogici ( PdL ) o PseudoResponsabili/Equilibrati ( da -buon governo- sic ! ) ( PD ) o la CHIMERA Grillina ! SENZA una analisi seria ed approfondita continuereme non solo a perdere le elezioni … ma al perderemo anche NOI stessi ! AUGURI !
Oggionni segretario? Credete che non abbia responsabilità in questo disastro politico?
nei commenti mi pare di assistere al dibattito del PD ci voleva Renzi, ci voleva questo o quell’altro…non è un problema di nomi e generazionale (almeno per me in piccola parte) ma è un problema generale di cosa siamo di cosa abbiamo proposto e se ancora serviamo! altrimenti riponiamo il richiamo al comunismo a tempi migliori…
Continua a pontificare chi è comunque implicato nei fallimenti che hanno travolto la sinistra cosiddetta radicale (obbrobrio di definizione) negli ultimi 5 anni.
Le dimissioni della direzione di rifonda sono state ancora più comiche, hanno ricordato quelle di Papa Nazi: “Noi andiamo, ma comunque c’è il Vangelo “Rivoluzione Civile” avanti così compagn*!”
Un po’ di analisi fatela pure, ma prendetevi il tempo che serve, tipo 10, 15 anni.
Noi intanto cerchiamo di far qualcosa di utile, tipo scrollarci di dosso questo ceto dirigente altamente incapace.
temo che i gruppi dirigenti non capiscano ancora e vadano rimossi con la forza ed allora ben vengano i regolamenti di conti
UNA IMPORTANTE LETTERA DEL COMPAGNO E SEGRETARIO DEL MIO PARTITO, OLIVIERO DILIBERTO…. anche da parte mia un abbraccio forte!
Carissime compagne e carissimi compagni,
come sapete, dopo l’esito terribile delle ultime elezioni politiche, io e tutta la segreteria nazionale del Pdci ci siamo dimessi dalle rispettive cariche.
Non poteva essere diversamente: e chiedo scusa a tutte e tutti voi per non essere riuscito nell’obbiettivo che nei cinque anni passati ha assorbito tutte le mie energie (e quelle del partito
tutto): riportare i comunisti in Parlamento.
Me ne assumo completamente la responsabilità. Non accampo scuse, né attribuisco ad altri la colpa.
Ho la coscienza tranquilla perché ho dedicato a questa impresa quanto sapevo fare, senza mai risparmiarmi e senza nulla chiedere, ma provando a restituire al Partito almeno un po’ di quel
tantissimo che il Pdci aveva dato a me nei decenni. L’ho fatto con abnegazione, ma evidentemente non con altrettanto successo. Ancora una volta, vi chiedo scusa.
Ci ho, e ci abbiamo, provato con ogni mezzo, piegando la tattica del Pdci, di volta in volta, spesso anche con improvvisi cambi di rotta, alle esigenze della fase e alle strettoie della legge elettorale.
Ma, ripeto, non ci siamo riusciti: evidentemente, non sono stato adeguato al compito, oggettivamente difficilissimo. Altri ci proverà al posto mio (e del gruppo dirigente che ha guidato sino ad oggi il Partito). Avremo a breve – se il Comitato centrale della prossima settimana lo approverà – un congresso nazionale nel quale adeguare gruppo dirigente e linea politica alla fase complicatissima che si è aperta, alle nuove forme della politica in Italia, alle sfide dell’innovazione dei linguaggi, della comunicazione e dell’organizzazione politica.
Ne discuteremo tutti insieme, tutti su un piano di parità, da militanti appassionati del Pdci: perché nulla può essere più come prima.
Ma una sola cosa mi sento di dirvi, in un momento di grandissima amarezza anche personale, ma di altrettanta convinta adesione alla nostra idea ed alle nostre ragioni: tenete duro. Difendiamo il
Partito e rilanciamolo, ad iniziare dai territori e dai nostri insediamenti. Lanciamo la campagna di tesseramento, ascoltiamo i compagni, le loro critiche sacrosante e le loro proposte, parliamo con loro, stiamo loro vicini.
E’ il momento nel quale si vedranno quanti, ad iniziare da me, in veste profondamente diversa che nel passato, da semplice comunista, hanno ancora voglia di provare a resistere e rilanciare un partito comunista in Italia, secondo la migliore tradizione del comunismo italiano, senza sbandamenti identitari, settari o estremisti, ma al contempo senza alcuna idea liquidatoria.
Difendiamo, dunque, senza esitazione alcuna, il Pdci, anche e soprattutto per rinnovarlo e migliorarlo. Da una sconfitta così catastrofica, che fa seguito ad altre, purtroppo, si deve poter
uscire a testa alta. Da comunisti, insomma.
Io sarò con voi, se lo vorrete, da semplice militante, perché non intendo buttare alle ortiche una storia intera, quella percorsa insieme a voi dentro a questo nostro Partito.
Un abbraccio fraterno a tutte e tutti.
Olviero Diliberto
E tu in quale mondo vivi? Si può andare avanti come se niente fosse? Grassi è disonesto? Chi fa il segretario?
Errore mio perchè non ho riempito di contenuti la mia critica.
Il problema non è sostituire culi su poltrone con altri culi su poltrone, ma modificare radicalmente le pratiche al nostro interno. Se non siamo attrattivi non è perchè Ferrero o Grassi o Oggionni sono brutti e dobbiamo cambiare le facce da mettere in TV.
Ci sono pratiche gerarchiche che non ci rendono attraenti all’esterno, e che scatenano la guerra tra bande al nostro interno. Dobbiamo rovesciare la piramide, rendere i militanti più importanti e i dirigenti meno importanti. Se la linea politica è condivisa si lavora tutti meglio. Se la linea politica la scrivono quattro saggi su una montagna, lontano dal mondo reale, può darsi che la scazzino completamente, e che ai militanti venga richiesto di propagandare cose inverosimili e poco convincenti.
E se non lo fanno vengono commissariati.
Bella roba.
leonardo posso farti notare però che in questi cinque anni l’unica faccia delle tre che è andata in televisione sempre ad ogni spazio concessoci è quella di Ferrero e che grassi pur essendo responsabile organizzazione prima e comunicazione (!!!) poi non è mai andato e che oggionni pure non ce l’hanno mai mandato? quindi per carità non c’è la controprova del ragionamento ma qui le responsabilità sono diverse… e se grassi e qualcun’altro fosse andato in televisione magari, non dico tanto, però…. un’altra immagine la davamo (o chi per lui…)
e ovviamente il discorso tv si può estendere a tanto altro!!!
Allora, o io non so esprimermi bene o tu non leggi quello che scrivo.
Grillo quante volte è stato intervistato in TV ?
Zero. Lui ha creato la notizia e le TV lo hanno inseguito.
Noi non sappiamo più creare la notizia, come facevamo ad esempio quando fermavamo i treni della morte con i nostri corpi all’epoca del movimento per la pace.
Il discorso sulla TV è estremamente fuorviante, non abbiamo perso perchè siamo stati poco in TV ma perchè siamo stati poco nella società e siamo stati poco e male nei movimenti sociali. E con la linea politica che avevamo ( sottoscritta anche da Grassi ) non poteva essere diversamente, non puoi essere convincente se a giorni alterni dici al PD “perchè non mi hai caricato sul carrozzone.
Il contenitore di Grillo nella società c’è stato un casino e in maniera meno ambigua e più coerente. Poi è un contenitore con delle contraddizioni terribili ed una forza politica pessima.
Ma noi nella società, a fare radicamento, ci siamo stati molto male, e la strategia politicista di fare negli ultimi due mesi un contenitore per l’autoconservazione del ceto politico ( non so se è così, ma così è apparso al nostro ex elettorato almeno ) non ha pagato.
Non si poteva fare diversamente ? Negli ultimi due mesi no. Si poteva fare diversamente se il progetto politico lo portavamo avanti da Chianciano così come era venuto fuori dal congresso, invece abbiamo cambiato rotta e ci siamo persi.
Io Ferrero l’ho conosciuto personalmente, è un compagno con cui prenderei volentieri una birra e dal quale comprerei un auto usata. L’ho pure votato a Chianciano e poi non ho votato più la mozione di maggioranza a Napoli perchè non ho condiviso la linea ne carne ne pesce che ha intrapreso li, troppo timida, troppo moderata, troppo incline ai compromessi con le forze politiche che hanno distrutto il paese. Ora non mi sembra che Grassi sia meno moderato di Ferrero, che non abbia in passato cercato l’alleanza con le forze politiche di cui sopra, e dalle cose che ha scritto sul blog mi pare non abbia chiara la strada da percorrere per risollevarci sulle nostre gambe. Per me quella strada accelera il declino. Poi mi sbaglierò …
Ho alcuni dubbi sul punto 4, nel senso che anche io ero convinto fosse la cosa più “razionale” da fare, ma dovremmo riflettere sul perchè la nostra “razionalità” è stata spedita nel cesso dalla nostra base.
Trovo invece che i punti 9 e 10 siano troppo ambigui. La categoria della “sinistra” può voler dire tutto e niente. Serve maggiore precisione nella proposta.
Personalmente ho provato a riflettere un po’ a 360° sta settimana e dopo una profonda autocritica (che mi sento io per primo colpevole come e quanto il gruppo dirigente dimissionario) ho partorito questo scritto che spero possa dare spunti utili. Saluti comunisti!
“Come ripartire?
Gli errori strutturali compiuti dal PRC
Proviamo ad ampliare lo sguardo, a esaminare con un colpo d’occhio la scia lunga dei 20 anni di Rifondazione Comunista in relazione al contesto politico economico italiano. Che cosa emerge? Emerge che essa è stata l’unica forza politica che coerentemente e senza cedimenti non ha ceduto alle lusinghe ideologiche del capitalismo liberista, ideologia che invece ha permeato nella sostanza (chi più chi meno) tutte le altre formazioni politiche italiane. Questo è stato certo un elemento di pregio e lode per il PRC, che ha potuto contare su un apparato ideologico saldo che invece è stato ripudiato con dissennatezza dalle altre anime della sinistra da Occhetto in poi. Ma se l’intero quadro politico italiano è stato egemonizzato dal liberismo quali conseguenze se ne potevano e dovevano trarre? Principalmente due: 1) che diventava impossibile per un partito comunista allearsi con qualunque di queste forze, quantomeno finchè non fossero cambiati totalmente i rapporti di forza in modo tale da favorire la formazione di una coalizione realmente progressista in cui i comunisti fossero egemoni; 2) che in questo panorama le conseguenze culturali potevano diventare solo due: o avrebbe perso di senso la classica distinzione destra/sinistra, in un contesto dove la sinistra veniva percepita in linea maggioritaria in una forza solo apparentemente socialdemocratica (PDS-DS-PD) ma in realtà nei fatti liberista; oppure si sarebbe arrivati a concludere che il bipolarismo era diventato di fatto un gioco di alternanza tra due destre, secondo la definizione data da alcuni importanti autori (Revelli, Cavallaro).
La strada scelta dal PRC a riguardo di questi due punti è sempre stata ambigua e incapace di mantenere per lungo tempo una linea decisa e coerente. Le cose sono due: o il PRC è stato incapace di capire la portata devastante dell’influsso egemonico esercitato dal liberismo sulle forze socialdemocratiche, oppure non ha avuto il coraggio di far proprie le tesi di Revelli e Cavallaro, ricordando quanti danni queste teorie (che molti, è bene ricordarlo, bollavano come “settarie”) storicamente avessero fatto in contesti storici diversi (mi riferisco agli anni ’20-30 quando si denunciavano i traditori socialdemocratici mentre i fascismi infuriavano in tutta Europa).
Da questo errore di analisi primordiale è conseguito l’altro grande problema drammatico del PRC, lo scissionismo, causato in primo luogo (si riguardi il libro di Paolo Favilli, In direzione ostinata e contraria) proprio dalle divergenze tattico-strategiche elettorali. Uno scissionismo favorito dall’aver acconsentito fin dalle origini alla creazione di aree e correnti organizzate, abbandonando quel centralismo democratico che per 40 anni aveva garantito la stabilità del PCI.
Ma lo scissionismo è stato favorito anche da una mancanza grave che ha colpito la gran parte dei comunisti e delle aree, e che rappresenta un’altra sorta di peccato originario della nostra pratica politica: l’aver posto le elezioni come obiettivo strategico invece che meramente come obiettivo tattico. Il quinquiennio 2008-2013 rappresenta da questo punto di vista la casistica più imbarazzante: per due volte, in vista delle elezioni Politiche, si decide di cedere ideologicamente e programmaticamente, mettendo da parte la propria identità, per il mero obiettivo di entrare in Parlamento. Abbiamo dimenticato che il Parlamento è un mezzo, non un fine. Il fine è l’abbattimento dello Stato borghese e il ribaltamento dei rapporti di produzione, la qual cosa non si può ottenere che attraverso un lungo processo di lotte in cui il partito riesca ad inserirsi positivamente, guadagnando così consenso sociale e crescita dell’organizzazione. Quello che abbiamo dimenticato è che un militante ben istruito, volenteroso, onesto e capace di guidare una mobilitazione vale più di 1000 voti ad una tornata elettorale.
Tutto ciò non vuol dire che dobbiamo tutti riversarci in massa nelle sedi di Lotta Comunista, ma che dobbiamo capire che il modo migliore per continuare a stare fuori del Parlamento, per essere invisi alla gente, è pensare solo alle elezioni e ad eleggere dei parlamentari (che pure rimangono un mezzo utile in sè per dare voce e forza alle lotte). Non bisogna quindi mai (tanto meno oggi, in Italia, contesto particolarissimo in cui i compromessi politici sono visti come la peste) svendere la propria identità, anima, programma, mettendo in contraddizione la proposta politica con le lotte condotte negli anni.
L’analisi di fase attuale
Capiti gli errori del passato cerchiamo di capire il presente. In primo luogo le elezioni Politiche segnano una serie di novità clamorose: il definitivo crollo del bipolarismo, con la ribellione di fasce maggioritarie dell’elettorato all’idea di dover accettare passivamente l’austerity imposta dall’Europa liberista.
Quel che ne deriva è però un quadro estremamente instabile sotto ogni punto di vista: politico, sociale ed economico, con la possibilità che si apra lo spazio anche per il ritorno di nuovi (vecchi) paradigmi culturali. Tale oggi è la permeabilità ideologica e la richiesta di radicalità di milioni di italiani.In questo quadro c’è l’incognita del M5S: esempio di rivoluzione o di reazione/conservazione? Il dibattito in corso si è acceso sulle tesi contrapposte di Franco Berardi e Wu-Ming.
Chi scrive ha più volte denunciato il rischio derivante dal M5S e in particolare dalle personalità di Beppe Grillo/Casaleggio. Oggi è più difficile capire che cosa succederà dentro e fuori dal M5S. La mancanza di una cultura politica comune e la difficoltà di gestire un successo così improvviso e inaspettato, oltre all’impreparazione politica e ideologica della gran parte degli eletti rappresentano fattori di incognita notevoli. Quel che però sarà probabilmente decisivo è capire come si svilupperà la dinamica di potere all’interno del M5S: chi comanderà e deciderà la linea?
Saranno i capi Grillo-Casaleggio, leader mai scelti democraticamente, oppure sarà il gruppo degli eletti, seguendo la propria ragione e al limite i suggerimenti del web?In ogni caso si aprono voragini per i comunisti, se sapranno entrare nelle modalità adeguate in questi processi. Il M5S potrà deludere o stravincere, ma sia nell’uno che nell’altro caso ci sarà bisogno di qualcuno che proponga la radicalità sul tema economico-sociale, con la stessa verve usata da Grillo per il tema legalitario-istituzionale (la casta e i partiti…).
Negli anni il popolo è caduto vittima di diversi populismi-leaderismi (Berlusconi, Bossi, Di Pietro, Monti, Grillo) ma nessuno di questi ha mai offerto sul piatto una proposta antiliberista, che rappresenta il vero nucleo per la risoluzione dei problemi. Inoltre sappiamo che la crisi capitalistica in Occidente è lungi dall’essere risolta. Nulla è stato fatto per mettere sotto controllo il settore finanziario-bancario (ne è dimostrazione il caso MPS), l’UE non sembra poter autoriformarsi come dovrebbe, e mentre la disoccupazione e la povertà aumentano è probabile su termini medio-brevi l’esplosione di nuove bolle finanziarie che devasteranno ulteriormente il già fragilissimo tessuto economico. Il malcoltento e le finora moderate proteste di piazza rischiano di accendersi arrivando a livelli di esasperazioni allarmanti.
I compiti dei marxisti
Parlo non a caso di “marxisti” e non meramente di “sinistra” o “comunisti”, per marcare una differenza importante: coloro che partono dalla conoscenza critica di Marx-Lenin-Gramsci e che oggi guardano sconsolati al panorama italiano si dovrebbero chiedere: che fare? Finora abbiamo sbagliato completamente analisi di fase, prospettive e soluzioni proposte. Siamo stati incapaci di capire le esigenze e le volontà di coloro che intendiamo rappresentare, difendere e guidare alla riscossa. Siamo inoltre coscienti che la situazione non potrà far altro che peggiorare ulteriormente, e vediamo come al momento praticamente non esista un organizzazione capace di affrontare le prossime devastanti crisi sociali e (forse) istituzionali del Paese.
Vale la pena, in un simile contesto, portare avanti il progetto Rivoluzione Civile, ossia il tentativo di concentrare l’azione di costruzione di una sinistra antiliberista all’interno della quale tentare di esercitare un’azione egemonica comunista? Siamo cioè certi che un progetto meno identitario e più allargato sia più attrattivo nel momento in cui perda gran parte della radicalità programmatica necessaria, necessitando inoltre di molto tempo per plasmare una cultura politica comune?
La domanda alternativa è: se siamo allo “stato zero” e tutto è da ricostruire, perchè dedicarsi a Rivoluzione Civile, progetto dai caratteri ambigui fin dalle origini e ormai già screditato, piuttosto che alla ricreazione di un valido partito comunista? Un partito che sappia affrontare, ricordando le pratiche della sua storia, anche eventuali derive autoritarie, di cui non si può del tutto escludere la possibilità per il prossimo futuro.
Quel che pare certo è che serva una nuova radicalità e un’accentuazione della preparazione politica e culturale dei militanti: se è realmente a rischio la democrazia e se la società italiana è ormai così instabile da assegnare diversi milioni di voti ad una serie di populisti padroni dei propri partiti, occorre ragionare sulla possibilità di dare stabilità al partito attraverso un’organizzazione di quadri piuttosto che di massa. Un partito di quadri che in caso di bisogno sia preparato ad affrontare nel modo adeguato le crisi più catastrofiche che potrebbero arrivare a mettere in discussione l’assetto costituzionale della nostra Repubblica. Ma anche nel caso in cui il quadro non sia così drammatico e sia ancora possibile tentare un alternativo radicamento di massa bisognerà d’ora in poi porre l’accento su una piena conoscenza della teoria che contraddistingue il marxismo (materialismo storico e dialettico), degli assetti moderni e contemporanei dell’economia capitalistica e della società occidentale, oltre che un approfondimento delle pratiche di Resistenza storicamente adottate dal movimento operaio nelle epoche di crisi.
Rifondazione Comunista può bastare per tutto questo? Impossibile dare una risposta, ma una cosa è certa: mi sembra impossibile pensare che un partito comunista, anticapitalista o di sinistra (qualunque strada si scelga) possa sorgere ed avere successo senza l’appoggio e il consenso dell’attuale base di Rifondazione Comunista, la cui esperienza e le cui energie umane, culturali e sociali sono indispensabili e cruciali per qualsiasi progetto di ricostruzione. La differenza tra una setta e un partito è molto sottile, e sta tutta nel numero e nella capacità attrattiva che è in grado di avere l’organizzazione: puoi avere anche la linea giustissima ed essere coerente per dieci anni, ma se ti seguono 1000 militanti in tutta Italia verrai guardato con compassione e disprezzo e non attirerai quasi nessuno. Se però ti seguono in 100000 verrai guardato con timore e rispetto, stimolando l’interesse e la curiosità per la tua proposta politica.
Quale organizzazione per il futuro?
L’appello che mi sento di fare è questo: tutte le organizzazioni comuniste presenti (PRC, PdCI, PCL, SC, ma volesse partecipare anche la base di SEL ben venga…), convochino i propri congressi e decidano, di comune accordo, di sciogliersi per riunirsi in una nuova costituente comunista da svolgere assieme, chiamando a raccolta anche tutti i compagni rimasti per anni fuori dai ranghi.
Una costituente da cui esca un’organizzazione puramente di classe, priva di compromessi e dal profilo nettamente alternativo a questo PD (che peraltro si sposterà verosimilmente ancora più a destra con il probabile avvento di Renzi), con una dirigenza completamente rinnovata per marcare la necessaria discontinuità dalle macerie del passato. Un’organizzazione comunista o quanto meno nettamente anticapitalista, che recuperi il simbolo, una teoria, un programma e una prassi che siano tali, che cerchi di riaggregare tutti i compagni comunisti sparsi sul territorio e faccia da sponda per le lotte che continueranno implacabili per i prossimi anni.
Un’organizzazione in cui il correntismo non esista, garantendo piena democraticità interna ma assoluta omogeneizzazione all’esterno: si ritorni quindi al centralismo democratico, si aboliscano le liste bloccate e si torni ai primi anni del Prc quando i delegati ai congressi e i gruppi dirigenti a tutti i livelli si eleggevano con le liste aperte maggiorate (di numero) e le preferenze che la base o la platea congressuale poteva dare liberamente. Ci si apra però anche alle nuove possibilità offerte dal web e alle nuove esigenze di riforma del partito: si pensi alla possibilità di svolgere sondaggi consultivi tra i propri iscritti sul web per avere un quadro più aggiornato delle istanze e degli umori della base; si introduca la pratica dei referendum tra gli iscritti per le decisioni tattico-strategiche più importanti e per le quali sia possibile decidere per tempo.
E soprattutto: abituiamoci a fare politica senza soldi. Prendiamo in considerazione misure drastiche che ci ridiano piena credibilità (stipendi di dirigenti ed eletti ad ogni livello legati allo stipendio medio di un operaio specializzato, come si faceva una volta…). Accettiamo il fatto che bisogna tornare all’autofinanziamento e che, se questo non dovesse bastare, sarà necessario chiudere alcune sedi e cominciare a riunirci al ristorante, al bar o a casa dei vari militanti. Non respingiamo aprioristicamente le istanze del “partito sociale”, le cui pratiche, se dirette a rafforzare il partito, potrebbero essere importantissime sia in un’ottica sociale che economica.
Forse sto sognando e delirando, ma di una cosa sono abbastanza certo: ormai nella fase in cui siamo non ci rimane niente da difendere. Tanto vale provare a ricostruire quel partito comunista di cui la prossima epoca storica avrà indispensabile bisogno. Bisogna pensare al domani, non all’oggi. L’oggi è morto.”
Se tu stai sognando o delirando, siamo in due a farlo.
D’accordissimo, però adesso bisogna andare fino in fondo. Simone Oggionni segretario nazionale del partito, azzeramento della segreteria (tranne Grassi, l’unica persona politicamente onesta) e facciamo un nuovo partito con un cuore comunista!
Ma in che pianeta vivi, scusa ?
Sottoscrivo! Adesso però vogliamo Oggionni segretario!
Grandi ragazzi. Il futuro è vostro. Ora oggionni segretario e nuovo partito della Sinistra.