Intervento all’Assemblea nazionale di Essere Comunisti di Alberto Burgio
Care compagne, cari compagni,
vorrei anche io, prima di entrare nel merito, ringraziare vivamente i nostri ospiti: sia i compagni e le compagne di Livorno che ci hanno permesso di vivere insieme queste intense giornate di studio e di riflessione, sia coloro che, non essendo più (ma vorrei dire: non essendo ancora) nella nostra area, hanno portato il proprio contributo alla nostra discussione, arricchendola di idee e di spunti critici che ci aiutano a condurre un’analisi più significativa. Il che poi è, o dovrebbe essere, naturale, visto che questa nostra discussione riguarda un oggetto comune: le sorti della sinistra comunista e di classe nel nostro paese.
Il merito, dicevo: esso riguarda le nostre difficoltà, che Claudio ha definito il “cuore” della sua bella relazione introduttiva. Vorrei cominciare a discuterne ponendo una premessa per dir così metodologica. Forse banale, ma ai miei occhi nondimeno essenziale.
Spesso ci diciamo quel che dobbiamo dire e fare e volere e pensare. E parliamo di programmi fondamentali e di obiettivi da perseguire. Tutto molto importante, non c’è dubbio. Ma spesso, concentrandoci su questi aspetti, rischiamo di eludere un tema non meno cruciale, anzi preliminare e quindi determinante: le condizioni necessarie a far sì che quanto diciamo e pensiamo e facciamo e vogliamo possa avere efficacia, possa effettivamente entrare nello spazio della politica.
Il punto è che, al di sotto di una determinata soglia di forza (la quale si compone a sua volta di diversi elementi: dimensioni, autorevolezza, relazioni, visibilità, risorse), dallo spazio della politica si è, volenti o nolenti, esclusi. Dunque di questo problema non è possibile disinteressarsi. Dovrebbe essere chiaro a tutti noi che, se la scelta della parte in cui schierarsi precede l’analisi politica della situazione data, questa analisi decide le forme dell’agire politico, e quindi dovrebbe a sua volta precedere o accompagnare qualsiasi discussione ideale su idee e obiettivi da perseguire. In una importante nota dei Quaderni del carcere Gramsci dice che il vero politico non si limita a prospettare “grandi idee”, ma si preoccupa sempre anche del “regolamento di esecuzione”, cioè dei mezzi e dei modi indispensabili a far sì che quelle idee possano realizzarsi. Lasciatemi dire che troppo spesso di questo “regolamento” noi stessi rischiamo di dimenticarci.
Ora, farsi carico della questione dell’efficacia dell’azione politica implica concentrarsi con grande attenzione sull’analisi della situazione politica, in un’ottica non puramente contingente, in una prospettiva che non esiterei a definire storica, o (sempre con Gramsci) “politico-storica”.
In questa prospettiva dobbiamo porci una domanda che, oggi, suona molto simile a quella che, se ho ben capito, si è posto nel suo intervento Sandro Valentini. Anche io mi pongo questa domanda, anche se do una risposta non coincidente con la sua. La domanda è: “Dove passa oggi il confine che decide dalla costituzione di un campo di forze di classe, del lavoro, della democrazia sociale, della pace, in grado di agire in modo autonomo ed efficace? Come dobbiamo definire un campo di forze che abbia queste caratteristiche? Quali forze lo compongono oggi, in questa situazione determinata? ”
Ebbene, io credo che – per rispondere – dobbiamo andare col pensiero al 2008, poiché in quell’anno la situazione si è trasformata in profondità. La risposta che dobbiamo dare oggi e dal 2008 alla domanda sul campo di forze al quale fare riferimento è diversa da quella che abbiamo dato precedentemente, poiché col disastro dell’Arcobaleno si è compiuto un passo decisivo (e non possiamo dire se reversibile) in direzione della relativa uniformazione dell’Italia alla situazione politica generale dell’Europa.
Col 2008 il confine di cui stiamo parlando si è spostato. Se per tutta la “prima Repubblica” questo confine separava i comunisti dai non-comunisti; se questo è stato vero – fatte le debite distinzioni – sino al 2008; se, cioè, sino al 2008 il campo delle forze comuniste era ancora, almeno potenzialmente, in grado di operare in autonomia e con efficacia, dopo il 2008 la situazione è cambiata. E questo stesso riferimento temporale basta a chiarire che parlare oggi di unità della sinistra di alternativa è cosa del tutto diversa (per non dire contrapposta) rispetto all’Arcobaleno. Dal 2008, e in conseguenza della rovinosa sconfitta allora subita (rovinosa per proporzioni e rovinosa per modalità e carico simbolico), lo spartiacque non coincide più con l’essere (o dirsi) o meno comunisti, ma concerne il giudizio sul capitalismo e persino sul neoliberismo. Oggi, come tra il 1943 e il ’45, i comunisti in Italia possono influire sulla scena politica soltanto dentro un campo di forze critiche più vasto, che includa anche forze sociali, politiche e intellettuali non comuniste. Per questo il tema delle alleanze e dell’unità della sinistra di alternativa non è meramente tattico e men che meno strumentale, elettoralistico. È invece un tema strategico, di respiro. Ne va, oltre che della nostra sopravvivenza, della nostra stessa ragion d’essere politica e – appunto – storica.
Di qui – ma non voglio soffermarmi su questo – la portata delle responsabilità che gravano su quei gruppi dirigenti che non fanno dell’iniziativa unitaria l’asse della propria azione politica. Le vicende della Federazione della sinistra parlano da sé. E anche lo stato dei rapporti tra Rifondazione e Sinistra Ecologia e Libertà. Non voglio indugiare in analisi specifiche, del resto ognuno di noi, che vive questa esperienza, è in grado di assegnare a ciascuno meriti e demeriti. Dico soltanto che, nella misura in cui si sono privilegiate rendite di posizione rispetto all’obiettivo dell’unificazione delle forze della sinistra di alternativa, ci si è caricati di una colpa politica di prima grandezza: una colpa che non è certo compensata dal fatto di continuare a definirsi “comunisti”.
Se questo è vero, chiediamoci: come siamo messi oggi?
Concludendo la sua relazione, Claudio si è detto ottimista. Io mi associo a questo suo stato d’animo, che condivido. Non soltanto perché col pessimismo non si fa politica. Ma anche perché vedo una ragione reale, connessa alla crisi in atto e alle sue premesse strutturali. Il capitalismo non è in grado di rispondere ai bisogni primari delle classi lavoratrici. Non solo: questa incapacità comincia a trapelare alla coscienza di massa, nonostante quella massiccia disinformazione alla quale abbiamo voluto intitolare il nostro seminario. C’è una domanda forte e diffusa di rappresentanza di bisogni materiali e morali che soltanto la sinistra di classe è in grado di rappresentare. Ci sono le condizioni potenziali per lo sviluppo forte della lotta di classe, oggi ancor più che nel recente passato.
Detto questo, non dobbiamo tuttavia scambiare potenzialità e realtà, prendere le possibilità per condizioni già date. Ottimismo, sì. Ma non sottovalutazione delle difficoltà. Anche perché questa situazione sociale esplosiva potrebbe anche evolvere a destra, con effetti dirompenti per la stessa tenuta democratica del paese. E allora vorrei, chiudendo, tornare al tema delle nostre difficoltà, nominato in apertura.
Io sono del tutto d’accordo con il punto centrale dell’analisi di Claudio: la situazione politica è aperta, indeterminata, fluida. Le contraddizioni che stanno emergendo, giorno dopo giorno, in seno alle singole forze e nelle loro relazioni reciproche, la rendono complessa, confusa, fortemente instabile. Non ci sarebbe quindi errore più grave che imprimere oggi un’accelerazione nelle scelte. Precipitare decisioni per prendere le quali non abbiamo tutti gli elementi necessari. In politica il tempo è un elemento decisivo. Non è tutto, ma è molto, e sbagliare il momento della decisione può compromettere le imprese meglio concepite.
Ma se questo non è il tempo delle decisioni, è tuttavia il tempo dell’attenzione: quello che oggi dobbiamo cominciare a fare, è prendere sempre maggiore coscienza che la situazione della sinistra italiana, e quindi anche della Federazione e del nostro partito, sta per entrare in una fase di grande e decisiva importanza. E che le scelte che oggi non possiamo ancora assumere, presto potrebbero rendersi ineluttabili. Quel che oggi dobbiamo fare è, insomma, acuire al massimo grado la nostra sensibilità, alzare le antenne, sviluppare la massima capacità di ascolto, di lettura della realtà e di interlocuzione. E dobbiamo anche essere sempre più consapevoli della gravità di questa situazione: non nascondercene i pericoli, che oggi mettono in discussione la nostra stessa esistenza come forza politica autonoma.
Questo volevo dire oggi. Non senza aggiungere, da ultimo, che anche io, come Claudio, sono sicuro che ce la faremo a superare questa difficoltà: come ce l’abbiamo fatta in altri frangenti, altrettanto difficili. E sono sicuro che torneremo a vivere insieme altri momenti lieti e ricchi, nei quali la politica non sarà soltanto lotta di resistenza ma anche conquista, remunerazione delle fatiche e premio per le lotte. Credo di potere dire questo senza indulgere a intenti consolatori anche soltanto guardando questa sala piena e intercettando lo sguardo di tante compagne e di tanti compagni insieme ai quali ho vissuto, in questi vent’anni, alcuni momenti indimenticabili della mia vita politica.
Condivido molto di quanto qui scritto, per cui mi soffermerò per lo più sui temi sui quali sono in disaccordo:
1) L’Italia si è solo parzialmente uniformata alla situazione europea ( che è comunque molto differente per quanto riguarda l’area mediterranea rispetto a quella nordica ). A differenza di Spagna, Grecia e Portogallo, e similmente all’Irlanda, in Italia manca una risposta politica e sindacale significativa in opposizione ai memorandum della Trojka. Abbiamo visto gli scioperi in Grecia e nella penisola iberica che hanno mobilitato un numero significativo di compagni, sulla spinta di partiti politici e sindacati conflittuali (questi ultimi da noi mancano. I COBAS hanno posizioni condivisibili e spero nella loro crescita, ma al momento mancanco di forza d’urto. La CGIL ha forza d’urto ma ormai non è più il sindacato dei lavoratori ma è il sindacato di un partito politico, e gli scioperi che mette in campo sono prevalentemente simbolici ed inefficaci). Parte del nostro sforzo politico dovrebbe andare nella direzione della costituzione di un fronte di alleanze sociali che si prefigga l’obiettivo di tutelare diritti e salario.
2) E’ necessario dialogare con forze politiche non comuniste, per la sopravvivenza materiale ed economica del partito comunista. Quel partito che è unico portatore di quella visione del mondo che individua nella crisi di sovrapproduzione e nella distribuzione diseguale del reddito le cause profonde che hanno portato alla crisi dell’economia reale e dell’impoverimento della classe lavoratrice ( ivi compresi impiegati, parasubordinati, precari e quant’altro ), e di conseguenza alla crisi finanziaria.
Sotto questo punto di vista eventuali alleanze con forze non comuniste, per quanto potrebbero essere opportune, dovrebbero essere considerate esclusivamente come una scelta tattica e non strategica.
Tale scelta tattica potrebbe anche essere di lungo periodo, e cioè duratura quel tanto che basta a perseguire dei fini politici che abbiano ricadute positive sul partito E AL TEMPO STESSO sulle persone che ci candidiamo a rappresentare. Tali fini politici non si possono ridurre quindi alla semplice riproduzione del partito comunista ( fatto già importante in sé ), ma per avere un senso devono CONTEMPORANEAMENTE portare ad atti politici e a prese di posizione che alternativamente:
a) possano portare miglioramenti oggettivi delle condizioni di vita della classe lavoratrice.
b) pur senza portare miglioramenti oggettivi possano aumentare la coscienza di se come classe dei lavoratori, migliorando il rapporto di forze che possiamo mettere in campo per il raggiungimento del punto a.
Tale scelta tattica potrebbe anche durare giorni mesi o anni, fintanto che esistono le condizioni oggettive e gli interessi in comune che la rendono proficua. Per parlar chiaro, finchè l’IDV si oppone alle misure antipopolari e filopadronali proposte dall’Europa, e alle forze politiche che le appoggiano, un’eventuale alleanza ha senso. Se domani smettesse di opporvisi verrebbe meno il senso dell’alleanza tattica, così come oggi è venuto meno il senso dell’alleanza con gli opportunisti del PDCI.
Per questa ragione ritengo che sia assolutamente insensato dire che un’eventuale alleanza con forze non comuniste è strategica e non tattica. Venissero meno i presupposti, bisognerebbe elaborare un’altra strategia.
Invece ha tutt’altro senso dire che la coalizione elettorale che abbiamo in mente è tattica, ma fatta per durare. Ci si tiene le mani libere di ritornare autonomi nell’eventualità in cui i nostri alleati dovessero provare a prenderci per i fondelli. E ci si tiene pronti all’eventualità che siano gli altri a decidere di rompere la collaborazione con noi.
Affermare il contrario significa avere altre mire ed altre intenzioni. Vedremo poi nel punto 3 per quale motivo. Ad accomunarci con i militanti di IDV e della Sinistra dei Club ( che oggi si fa chiamare Alba ) sono un vasto retroterra di valori di sinistra condivisi ed un abbozzo di visione comune su quali dovrebbero essere gli strumenti per rendere operativi tali valori. Ed alcuni interessi in comune.
Ma il nostro partito non deve sciogliersi ne annacquarsi dentro questa alleanza. Deve conservare simbolo e un’autonoma struttura e personalità giuridica. L’alleanza la si porta avanti finchè è funzionale agli interessi del partito e della classe lavoratrice. Se un domani dovesse smettere di essere funzionale, o addirittura di ostacolo, allora sarebbe un dovere morale mettervi fine.
Per quanto molti valori mi accomunino ai militanti dell’IDV, almeno altrettanti non li condivido, altrimenti non avrei motivo di aderire al nostro partito piuttosto che all’IDV. Ma ritengo che oggi, e per un periodo di tempo definito dalle condizioni sottostanti, possa avere senso un patto elettorale e di consultazione continua e di elaborazione di strategie comuni per crescere elettoralmente e portare a casa qualche risultato ( la sopracitata efficacia ).
Diversa considerazione va invece effettuata per la forza politica che si fa chiamare (indegnamente) Sinistra, Ecologia e Libertà. Tale forza politica, composta da radical-chic ignoranti e opportunisti pentiti del comunismo reale, difficilmente potrebbe essere considerata un partito. Non può essere considerata nemmeno come un comitato d’affari della borghesia. Dovrebbe invece essere considerata per quello che è, nella definizione di uno dei suoi membri fondatori: un ufficio di collocamento.
3) Cito testualmente : “Dal 2008, e in conseguenza della rovinosa sconfitta allora subita (rovinosa per proporzioni e rovinosa per modalità e carico simbolico), lo spartiacque non coincide più con l’essere (o dirsi) o meno comunisti, ma concerne il giudizio sul capitalismo e persino sul neoliberismo.”
Immagino lo spartiacque si riferisca a quello che distingue le forze politiche che potremmo considerare nostre alleate credibili e quelle che invece dobbiamo considerar nostre avversarie politiche fino al momento in cui non muteranno posizione.
Se invece lo spartiacque si riferisce alle forze che potrebbero stare dentro il partito comunista non mi potrei trovare maggiormente in disaccordo. Significherebbe realmente annacquarsi e sbiadire la propria analisi e visione del mondo.
Io sto dentro il PRC ( dal 2001 ) e mi definisco comunista perchè mi ritrovo nell’analisi della società, dell’economia e della storia operata da Marx ai tempi del Capitale e del Manifesto.
Perchè mi ritrovo nell’analisi di Lenin sull’essenza dell’imperialismo e anche sulla opportunità storica del provare a mettere in atto le analisi del “Che Fare?”, in quel determinato momento storico.
Perchè la storia del PCI è la storia di un partito che ha fatto tanti errori ma che ha saputo mantenere la sua autonomia di scelta nel Comintern e si è distinto per tempo da alcuni degli errori compiuti nell’URSS.
Perchè i comunisti italiani non ti mandavano nei gulag ma insegnavano agli operai a leggere e a parlare in pubblico da pari a pari con i padroni.
Perchè i comunisti italiani insegnavano agli operai a non togliersi il cappello.
Ritengo che il partito abbia il dovere di propagandare queste posizioni in quanto difesa di quanto di buono ci sia nell’esperienza storica del comunismo e in quanto argine ai tentativi di revisionismo e manipolazione della storia ai fini della demonizzazione dell’unica forza politica che ha avuto la possibilità, realizzandola, di produrre un esperimento sociale volto all’uguaglianza politica ed economica come quello dell’URSS. Quell’esperimento non è andato a buon fine, ma ritengo che la Rifondazione abbia in questi anni prodotto un’analisi dei motivi del fallimento dell’esperimento, che abbia separato il bambino dall’acqua sporca, e che sia oggi in grado di definire quale sarebbe il comunismo che vorremmo realizzare in Italia. Se per caso non l’avesse ancora fatto bisognerebbe interrogarsi su che cosa stiamo aspettando, visto che esistiamo da vent’anni.
Espongo brevemente la mia idea, anche a costo di andare fuori tema, per fare un esempio, sperando che sia la più condivisa possibile, di ciò che dovrebbe essere il comunismo in un paese occidentale:
Dell’esperienza sovietica deve essere conservata gran parte dell’analisi economica e la necessità di giungere progressivamente all’eguaglianza economica di tutti i cittadini, con differenze salariali esigue se non inesistenti tra lavoro, mestieri e professioni, all’interno di un’unica classe. Non tanto perchè sia giusto che il muratore prenda quello che prende l’architetto ( e lo è, giusto ), ma perchè le differenze economiche, sociali e culturali si ritraducono in differenza di diritti ed esigibilità degli stessi di fronte alla legge. E perchè se tutti quanti non percepiscono suppergiù lo stesso stipendio si riproducono le dinamiche di accumulazione capitalista che portano alla crisi di sovrapproduzione.
Per quanto riguarda l’organizzazione della produzione lo Stato dovrebbe possedere e dirigere direttamente solo le grandi reti ( internet, le autostrade, le poste e telecomunicazioni, gli acquedotti etc etc ) e le industrie strategiche ( siderurgica, bellica etc. etc. ) insieme al sistema bancario e finanziario. Tutte le altre imprese non dovrebbero essere nazionalizzate ma bensì SOCIALIZZATE e date in mano a cooperative di lavoratori ( il cui funzionamento dovrebbe essere sostanzialmente diverso dalle cooperative ex-rosse che vediamo oggi nelle ex-regioni rosse e che hanno tradito il loro spirito e la loro funzione originaria ) affinche essi possano in piena autonomia prendere le decisioni strategiche per il loro funzionamento. Dando piena esecuzione alla massima “le terre ai contadini, le fabbriche agli operai”, ed aggiungendovi magari “gli uffici agli impiegati”.
Dall’altro è necessario garantire i diritti umani ed il pluralismo della società. Per fare chiarezza:
a) Dai diritti dell’uomo, così come esposti nell’attuale legislazione internazionale, va espunto il “diritto” alla proprietà privatà dei mezzi di produzione ( e solo dei mezzi di produzione esposti sopra, escludendovi perciò la proprietà della casa in cui si risiede, degli strumenti necessari a svolgere il proprio lavoro e degli effetti personali degli individui ). Non è un diritto universale in quanto solo chi è proprietario gode del diritto di proprietà, mentre chi non è proprietario ne è escluso. Proprio perchè non è universale non è nemmeno un diritto, ma un privilegio esclusivo affidato a qualcuno in maniera arbitraria. L’ultimo privilegio feudale che la rivoluzione francese non è riuscito ad estinguere, e quello sulla cui base sono nate tutte le disuguaglianze della società borghese.
b) Tutti gli altri diritti umani verrebbero così arricchiti di sostanza perchè tutti i nuovi componenti dell’unica classe sociale potrebberlo esigerli, mentre oggi il differenziale nei rapporti di forza li rende diritti non universali. Provate ad usufruire della vostra libertà di parola e di pensiero quando siete lavoratori precari e ditemi le conseguenze che comporta sulla vostra vita.
c) La società deve essere pluralistica. Perchè uno degli errori fondamentali fatti dall’URSS è stata la repressione del dissenso. Il dissenso va lasciato libero di esprimersi, perchè la critica costruttiva ( ed a volte anche quella distruttiva, se quanto costruito è irriformabile ) è lo strumento per migliorare l’esistente ed affrontare le contraddizioni del mondo reale. L’URSS preferiva fuggire dalle contraddizioni e far finta che non esistessero. Non si rinnovò e per questa ragione si estinse, come i dinosauri, al mutare improvviso delle condizioni economiche e geopolitiche degli anni ’70-’80.
d) Deve avere libere elezioni e libera ed eguale partecipazione di partiti alle elezioni. Dopo la fase di transizione bisogna permettere l’esistenza di partiti che, pur condividendo i valori fondanti della nuova repubblica, possono avere soluzioni diverse per la risoluzione dei problemi. E non quella farsa che erano le elezioni sovietiche ( per completezza bisogna dire che anche le elezioni italiane dove vinceva sempre la DC erano abbastanza una farsa ), con partiti civetta tenuti in vita per dare un’apparenza di democraticità ad elezioni che erano sempre e costantemente scontate. Ci deve essere ricambio nelle stanze del potere per impedire la fossilizzazione degli apparati e delle burocrazie, per impedire l’impunità del ceto dirigente e combattere sprechi e corruzione. Nel’eventualità in cui un partito anti-sistema voglia cambiare i fondamenti dello Stato comunista, è necessaria una costituzione blindata che richieda maggioranze bulgare per modificare la forma-stato. E se le maggioranze bulgare si verificassero, bisogna accettare la volontà popolare di mettere fine al nuovo esperimento politico.
e) Prendendo come esempio le realtà di socialismo democratico che si stanno verificando in America Latina e che raccolgono il testimone lasciato dal povero Allende negli anni ’70, vediamo come la presa del potere violenta ed arbitraria del partito comunista ( che in Russia era giustificata dall’alternativa dell’assolutismo zarista ) sia solo uno, ma non l’unico, dei possibili strumenti per realizzare il nostro programma politico. Esiste la possibilità di vincere le elezioni e governare ed ottenere risultati parziali ma importanti. E per questo è necessario usare questo strumento in quanto il più indicato a raggiungere i nostri obiettivi. Per far si che i mezzi non siano sproporzionati rispetto ai fini. Esiste altresì il diritto di resistenza ai governi tirannici e nel caso in cui la borghesia di un determinato paese dovesse essere costretta ad rendere esplicita la propria dittatura attraverso un regime politico reazionario, parafascista e lesivo degli stessi diritti liberali che la borghesia sostiene di difendere, anche lo strumento della resistenza violenta ad un potere costituito oppressivo potrebbe avere un senso. Oggi non sono i tempi, ieri lo sono stati, e non possiamo dire oggi domani quel che sarà.
Penso che quanto ho scritto sia ormai un patrimonio condiviso di analisi dentro il partito, e se così non fosse invito qualche compagno a delineare un progetto che possa essere più condivisibile del mio, perchè di più non sono capace di fare.
Ma torniamo a bomba sull’oggetto del contendere.
Se per caso oggi dentro il PRC esistono forze che non si sentono più comuniste e che vorrebbero cambiare identità, gli consiglio vivamente di non rifare la tessera ed entrare in SEL, perchè quello è il progetto politico che sembra tagliato apposta per loro. Non abbiamo bisogno di gente alla Veltroni che dica “stavo nel PCI ( percependo uno stipendio da esso, aggiungo io ) ma non sono mai stato comunista”. Abbiamo bisogno di compagni/e con gli attributi ( maschili/femminili ) che si sentano orgogliosi della propria storia e che si sentano fieri di trasmetterla ai compagni più giovani per ampliare la base di militanza e marciare uniti in direzione del traguardo finale.
Perchè, compagni, chi si sente la coscienza sporca non riesce a convincere nuove persone a fare la tessera, a votare per noi. Non risulta convincente. Le persone lo avvertono ed il nostro lavoro risulterebbe inutile.
Io personalmente sento di avere la coscienza pulita. Non ho mai ucciso nessuno. Non ho mai epurato o censurato nessuno. Non ho mai raccontato balle consapevolmente. Eppure mi sento comunista ed ho il coraggio di affermarlo pubblicamente, nonostante le conseguenze negative di maccartismo economico e lavorativo che ne conseguono. E ne vado fiero.
E non sopporto l’idea che mi possa venire il sospetto che nel mio partito possano esistere dei finti comunisti per convenienza.
Per queste 3 ragioni compagni, per citare uno dei nostri grandi vecchi, “sarei insincero se mi dicessi persuaso” dal modo in cui il progetto politico è stato esposto. Secondo me non è sufficientemente chiaro. C’è troppa confusione e troppo “non detto” in questa analisi.
Se il partito si dovesse sciogliere ( formalmente o di fatto ) in un’alleanza “strategica” fondativa di un nuovo partito che non avesse la definizione di comunista, non avrei motivo di continuare ulteriormente a militare e sprecare il mio tempo dentro la nuova formazione.
In caso contrario, se l’alleanza nei fatti si dimostrasse solo tattica, avete il mio pieno appoggio e la garanzia del mio impegno.
Attendo con ansia delucidazioni.
Leonardo Zattoni.
Iscritto GC della federazione di Siena.
P.S.
Ricordatevi di che fine ha fatto Ochetto.