intervento all’assemblea fondativa di Alternativa Ribelle
Voglio ringraziare uno per uno i compagni e le compagne che hanno lavorato in questi giorni a questo appuntamento, che hanno lavorato in cucina, che hanno allestito e pulito la sala, non soltanto quelli che hanno scritto e preparato i documenti. Perché i nostri partiti e la sinistra vivono non soltanto di grandi idee e di grandi strategie, ma anche di questi piccoli gesti quotidiani di militanza e di dedizione. Ho chiesto la parola adesso perché vedo qui in sala tante compagne e tanti compagni a cui voglio bene, che fanno parte della mia famiglia, della mia comunità, del mio partito. Penso a Francesco, a Danilo, a Claudio e anche a Flavio e Anna, senza i quali questo processo non sarebbe stato possibile.
E allora mi rivolgo a ciascuno di loro, a ciascuno di voi, con tutta la sincerità che merita il rapporto tra compagni. Io voglio dirvi che noi abbiamo soltanto una possibilità per fare di questo nostro processo uno strumento utile, e cioè per radicare la nostra unità nel futuro della nostra generazione: dobbiamo volare alto, guardare oltre i nostri limiti, le nostre imperfezioni, la nostra inadeguatezza. Quante volte – compagne e compagni – siamo costretti a dividerci e a scontrarci per motivi sterili, che ci vengono imposti dalle rispettive appartenenze, dai rispettivi schieramenti? Quante volte ci dividiamo perché non siamo in grado di ascoltare, di approfondire, di scavare in profondità le parole? Quante volte ci dividiamo per pigrizia? E quante volte queste divisioni ci rendono sterili, inadeguati, inefficaci, impotenti e quindi frustrano il nostro bisogno e la nostra voglia di cambiare il mondo, frustrando a cascata le nostre lotte? Io vi propongo – ed è questo il senso profondo di Alternativa Ribelle – di rimanere uniti, di metterci insieme, di superare ogni divisione, provando a costruire insieme una visione del mondo comune, un sistema di valori comune, un programma di lotta comune, una identità comune. Per farlo dobbiamo, come dicevo, volare alto e dobbiamo osare, riprendendo in pugno le parole della nostra storia e inventandone di nuove, quando ci accorgiamo che quello che siamo stati non è più sufficiente per descrivere quello che vogliamo essere. Io lo dico così: dobbiamo costruire una critica organica al sistema di produzione e riproduzione capitalistico, che definisce le forme del nostro lavoro, della nostra vita e del nostro sfruttamento. Che aliena i nostri rapporti, ci inaridisce, ci rende sempre più schiavi e sempre più egoisti. E di contro tornare a parlare di socialismo, di comunismo, di autogestione, di autogoverno, di un sistema economico fondato sulla proprietà collettiva dei mezzi di produzione. La crisi del capitalismo è radicale, radicale deve essere la nostra alternativa. Dobbiamo sottoporre a critica le politiche del governo (di questo governo, di quelli che ci sono stati prima e di quelli che verranno), che hanno privatizzato l’istruzione e la cultura, svilito il lavoro, attaccato i diritti, imposto un modello di società e di civiltà chiusa, razzista, élitaria, autistica, omofoba, intollerante. E che hanno fatto le guerre, la cosa più schifosa che un governo e gli uomini possano fare. Lo hanno fatto bombardando le fabbriche di Belgrado, i ponti della Jugoslavia, e poi in Afghanistan, in Iraq, ora in Libia mettendo al lavoro tutta la vergognosa ipocrisia di cui sono capaci, chiamando la barbarie guerre umanitarie, i missili bombe intelligenti e il colonialismo e l’imperialismo di rapina esportazione della democrazia. Noi nasciamo, viviamo, per dire che esiste e può esistere un mondo diverso, una società incompatibile con questi orrori. E che questo mondo può nascere soltanto se si riporta al centro di questo nostro triste presente il futuro, e cioè le generazioni future, la nostra generazione. Soffia un vento di rivolta nel mondo: nel Medio Oriente, nel mondo arabo, nel Nord Africa ma anche nel cuore dell’Europa capitalistica, dalla Grecia alle meravigliose piazze degli indignados di Madrid, Barcellona, Granada, Malaga e di tutta la Spagna. È una rivolta del futuro contro il passato, della libertà contro la dittatura del capitale, della vera democrazia contro la falsa democrazia, dell’eguaglianza e del diritto contro il privilegio. Ed è un vento di rivolta e di rinnovamento che è soffiato anche qui in Italia pochi giorni fa con le vittorie di Giuliano Pisapia a Milano, di Massimo Zedda a Cagliari, di Luigi De Magistris a Napoli. Segno non solo che la destra si può battere e che il berlusconismo è al capolinea, ma che possono vincere davvero il cambiamento, la discontinuità, il rinnovamento, la speranza di una politica nuova e pulita, pure a livello antropologico, pure a livello estetico. Noi siamo parte integrante di questo cambiamento. Noi siamo Puerta del Sol a Madrid, noi siamo l’Egitto, noi siamo la Tunisia, noi siamo la Grecia e noi siamo, non dimentichiamocelo mai, l’America Latina che rialza la testa dopo decenni e secoli di sfruttamento e siamo Cuba che la testa continua a tenerla alta, siamo l’Alternativa Ribelle come la Gioventù Comunista cubana, che ci insegna tutti i giorni cos’è la dignità, cos’è la lotta, cos’è il socialismo. Proviamo a volare alto e a capire dove dobbiamo andare, quale strada dobbiamo percorrere, tutti insieme. Il nostro primo obiettivo deve essere navigare senza paura nel mare aperto delle lotte, del conflitto sociale, della aule e delle fabbriche, delle piazze e delle strade di ogni città. Uscire dai nostri recinti, dai nostri fortini e navigare senza paura nel mare aperto della sinistra, con la convinzione che l’obiettivo centrale è conquistare egemonicamente il consenso della maggioranza della nostra generazione attraverso un atteggiamento non minoritario, non ideologico, non settario, non residuale. Parlando la lingua della nostra generazione, parlando la lingua della poesia, dell’arte, della musica ma al contempo la lingua dei quartieri popolari, del disagio, della sofferenza. Navigare in mare aperto abbandonando ogni atteggiamento burocratico, senza più liturgie e senza più totem. Sapendo che il nostro orizzonte è costruire per la prima volta nella storia del nostro Paese una sinistra di popolo, di massa, che muova dall’urgenza di cambiare il mondo e agisca con intransigenza e rigore ma al contempo con la massima apertura mentale e la massima capacità critica, con la capacità di essere diversi ma non estranei, Paese nel Paese, cellula della società futura. E non dismettendo, nemmeno per allusione, nemmeno per sbaglio o per scherzo, tutta la responsabilità e l’onore della nostra meravigliosa storia. Noi, compagne e compagni, siamo comuniste e comunisti e non ci vergogneremo mai di esserlo, non abiureremo mai, non tradiremo mai. Siamo orgogliosi di essere i figli e i nipoti delle vicende più belle della nostra Storia. Di Antonio Gramsci, di Eugenio Curiel, di Palmiro Togliatti, di Enrico Berlinguer. Dei tanti giovani condannati a morte della Resistenza italiana, dei tanti operai comunisti caduti sotto il piombo della polizia di Stato o dei sicari dei padroni e dei fascisti, come Valerio Verbano e tanti altri ragazzi che se fossero ancora vivi sarebbero qui con noi, compresi quelli, come Peppino Impastato, che sono stati ammazzati dalla mafia e perché credevano in un mondo più giusto. Siamo comunisti, non siamo altro, e per questo diamo vita oggi, con Alternativa Ribelle, ad un nuovo soggetto politico nel quale finalmente i Giovani Comunisti e la Fgci lavoreranno spalla a spalla insieme, senza più distinzioni, senza più divisioni, senza più steccati. Ci sono ancora resistenze e freni a mano, ma non me ne curo. Ci sono ancora dubbi, ma non me ne curo. Oggi non sono importanti. Oggi portiamo a casa questo grandissimo risultato, questo nuovo strumento che starà soltanto a noi – in ogni territorio, in ogni realtà – sapere utilizzare nel modo più giusto, mettendolo al servizio del movimento studentesco, dei lavoratori, dei migranti, delle donne, delle lotte dei nostri compagni e delle nostre compagne. Con una forza ancora più grande, con un entusiasmo ancora più grande. Con una dedizione e una passione ancora più grandi, con una intransigenza ancora più grande. Ma soprattutto con immensa, infinita tenerezza, che è la virtù più bella dei rivoluzionari.
bellissime parole ed analisi. Condivisibilissime.
Ma più che una visione di “lotta ribelle, e quindi, controdipendente dal potere” che traspare dal testo, mi sembra che manchi ancora la visione di una “proposta costruttiva indipendente dal potere”
abbraccio
valerio
Caro Simone,non ti conosco anche se so chi sei:un compagno.non sono molto giovane,ma sono una ragazza comunista,da sempre,over 50,ma non sembra.buffo?Sono d’accordo con te sulla utilità del movimento.la settimana scorsa ero un piazza della Signoria a Firenze con il mio consorte e c’erano tanti ragazzi in cerchio,sostenuti dagli indignatos che erano arrivati dalla Spagna… che fare? si ripropone oggi più che mai il fatidico interrogativo.intanto facciamo questo referendum e scalziamo la mummia e le sue incrostazioni fasciste,liberiamo il nostro paese e respiriamo aria pulita.Forza ragazzi!Proponete,manifestiamo,incazziamoci
saluti comunisti Marisa
cara Marisa,
hai visto che ce l’abbiamo fatta? La vittoria al referendum è un altro colpo, il vento sta cambiando davvero!
Ti abbraccio forte,
Simone
Ottima l’idea dell’unità, ma davvero non mi va giù ne il nome ne il simbolo, sembrano delle scorie del peggior Bertinottismo. Io voglio una giovanile unitaria che si definisca comunista dal nome alla pratica e che sventoli bandiere con la falce ed il martello.
Spero prendiate in considerazione la possibilità di poter modificare nome e simbolo nei futuri coordinamenti che spero ci saranno nei territori.
Caro Paolo,
il nome è stata la più logica conseguenza di due anni di campeggi unitari, per i quali abbiamo utilizzato questo nome, a dire il vero con un discreto riscontro tra i compagni. Puntualizzo che stiamo parlando di “Alternativa Ribelle”, perché “RibAlta”, come è scritto lo Statuto, sarà il nomignolo (a dire il vero non particolarmente simpatico) che utilizzeremo soltanto ai fini di legge.
Quanto alla falce e martello: non ce l’ha nel simbolo né i Gc né la Fgci. Non vedo il motivo per il quale avremmo dovuta introdurla in questo terzo soggetto che ha l’ambizione – e anche questo è stato deciso e condiviso per tempo – di allargarsi a sinistra e di non parlare soltanto ai comunisti.
Quanto al simbolo, dato che anche a me non fa impazzire, non l’abbiamo né votato né approvato all’assemblea. Il comitato promotore vaglierà nei prossimi giorni altri bozzetti e il simbolo ufficiale verrà votato al prossimo congresso.
un caro saluto
Simone
Caro Simone ti ringrazio per la celere risposta che mi hai fornito.
Nonostante il riferimento ai campeggi unitari continuo a non sentire mio un nome simile, credo che sia necessario in un periodo in cui tutti vogliono dimostrare l’inesistenza o al limite la marginalità dei comunisti in Italia fare un esplicito riferimento sia nel nome che nel simbolo. Il fatto che ne GC e FGCI abbiano la falce martello nei loro stemmi è sempre stato un elemento che mi ha disturbato.
Comunque da buon militante mi adeguo alle decisioni e spero che vengano fornite le sedi opportune nei territori dove io e molti altri miei compagni potremmo discutere ed esporre le nostre convinzioni.
Era importante questa unione e nonostante i meii dubbi è un buon segno che si sia fatta,continuiamo il buon lavoro che stiamo facendo come GC.
Saluti a pugni chiusi.
tenetemi al corrente, è ok per me!
maria grazia meriggi
L’insostenibile Premio Award del Festival di Taormina
di Antonio Mazzeo
Venerdì 17 giugno, nell’ambito della 57^ rassegna cinematografica di Taormina, il regista e attore palestinese Elia Suleiman riceverà il premio Fondazione Roma-Mediterraneo Award per il Dialogo tra le Culture.
Originario della città di Nazareth, nel 1982 Suleiman si trasferì a New York per girare alcuni cortometraggi, il più noto dei quali è Homage by Assassination (1991) sulla prima Guerra del Golfo. Divenuto docente di cinema nell’Università Birzeit di Gerusalemme, nel 1996 Suleiman diresse il primo lungometraggio, Cronaca di una sparizione, premiato come migliore Opera Prima alla Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia. Nel 2000 ha diretto il cortometraggio Cyber-Palestina, rivisitazione in chiave moderna del viaggio di Maria e Giuseppe a Betlemme attraverso una sempre più assediata Striscia di Gaza. La notorietà a livello internazionale del regista palestinese è giunta però con il film Intervento divino. Cronaca d’amore e di dolore, ambientato al checkpoint tra Nazareth e Ramallah e interpretato dallo stesso Suleiman (Gran Premio della Giuria 2002 a Cannes). L’ultimo lungometraggio, Il tempo che rimane, è stato presentato
alla fine del 2010: interpretato ancora una volta dal regista, narra la storia di Fuad, membro della resistenza palestinese sin dalla creazione dello stato d’Israele nel 1948, e della sua difficile relazione con il figlio. Un’opera in buona parte autobiografica che pone ancora una volta l’accento sulle tragedie del popolo palestinese sotto l’occupazione israeliana, che ha consacrato Elia Suleiman come uno dei migliori cineasti mediorientali odierni.
Più che meritato pertanto il riconoscimento dell’importante kermesse cinematografica siciliana, peccato però che il Roma Mediterraneo Award sia un premio-invenzione di una fondazione assai poco brillante per “dialogo” o “interculturalità” ma che però si è imposta come “principale sponsor” della manifestazione accanto ad enti locali e Regione Siciliana. Costola della “Fondazione Roma” (ex Fondazione Cassa di Risparmio di Roma, azionista di riferimento del colosso bancario Unicredit), la Fondazione Roma Mediterraneo è stata istituita nel 2008 dal professore e avvocato Emmanuele Francesco Maria Emanuele, storico presidente della fondazione bancaria madre. Di origini palermitane, Emanuele ha ricoperto prestigiosi incarichi nei maggiori gruppi bancari, finanziari e industriali nazionali, collezionando contestualmente titoli e riconoscimenti cavallereschi e nobiliari (barone di Culcasi, gentiluomo di Sua Santità il Papa, cavaliere
dell’Ordine del Santo Sepolcro di Gerusalemme, consigliere economico del Sacro Militare Ordine Costantiniano di San Giorgio, ecc.). Il professore-avvocato è pure “Signore della Grande Holding del Ponte”, lobby che accoglie i sostenitori della realizzazione del collegamento stabile in acciaio e cemento tra le sponde della Calabria e la Sicilia. Emmanuele Emanuele, in particolare, ha fatto parte del Consiglio di amministrazione della Società Stretto di Messina S.p.A., la concessionaria pubblica per la costruzione del Ponte. A riprova della spiccata sensibilità pontista della fondazione-sponsor del CineFestival di Taormina, va pure ricordato il doppio ruolo del cavaliere del lavoro Ercole Pietro Pellicanò, membro del Cda della società fautrice del Mostro sullo Stretto e consigliere della Roma Mediterraneo.
Ma a rendere pesante come un macigno il premio al “dialogo interculturale” attribuito al regista palestinese Suleiman, è tuttavia la presenza tra i membri del Comitato scientifico d’onore della fondazione, dell’ex ambasciatore d’Israele in Italia Avi Pazner, consigliere personale del primo ministro Yitzhak Shamir nella seconda metà degli anni ’80 e portavoce ufficiale di altri governi israeliani ultranazionalisti (l’ultimo in ordine quello di Ehud Olmert, maggio 2006 – gennaio 2009, passato alla storia per aver condotto la tragica guerra dei 34 giorni in Libano e l’operazione “Piombo Fuso” a Gaza).
Alto funzionario del ministero degli Esteri sin dal 1966, Avi Panzer esordì come diplomatico prima in Africa e poi a Washington. Nel luglio 1991, l’amico Shamir lo volle a capo dell’ambasciata israeliana a Roma, in uno dei momenti chiave della storia delle relazioni Israele-Italia. Conclusasi la prima Guerra del Golfo, Tel Aviv puntava a rafforzare il dialogo con l’allora presidente del Consiglio Andreotti, sempre più distante dall’approccio filo-palestinese che aveva contraddistinto sino ad allora la politica italiana in Medio Oriente. Panzer ricoprì l’incarico a Roma sino al 1995 contribuendo in particolare allo stabilimento di relazioni diplomatiche ufficiali tra Israele e il Vaticano. “Durante quegli anni – ha ricordato in un’intervista – l’Italia ebbe cinque diversi primi ministri: Giuliano Amato, Giulio Andreotti, Azeglio Ciampi, Lamberto Dini e Silvio Berlusconi. Il loro atteggiamento verso Israele fu assai differente. Il
socialista Amato fu il meno amichevole, mentre Berlusconi era ed è il più disponibile verso Israele”. Pazner è tornato a tessere le lodi dell’Uomo di Arcore in occasione del suo viaggio ufficiale a Gerusalemme del febbraio 2010. “Questa è la visita del nostro grande amico europeo”, ha esordito l’ex ambasciatore. “Berlusconi è figura unica nel panorama dei primi ministri italiani del dopoguerra e parlerà davanti alla Knesset, un onore che è stato riservato a pochi negli ultimi anni: Bush, Sarkozy, Angela Merkel”. Missione da piazzista d’armi quella di Silvio B. in terra santa. “Il premier italiano dovrebbe fare pressione sul ministro della difesa Barak perché Israele acquisti l’M-346, aereo militare di fabbricazione italiana, al posto del coreano T-50”, segnalarono al tempo i quotidiani israeliani. “La scelta del velivolo italiano da parte dell’aeronautica israeliana potrebbe aprire le porte ad ulteriori vendite
internazionali”.
Il potente diplomatico-consigliere stima però anche alcuni (ex) leader del centro-sinistra italiano, come ad esempio il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano o l’ex segretario del Pci Achille Occhetto. Tra gli “amici” c’è pure l’inossidabile manager pubblico e privato Giancarlo Elia Valori, già massone della loggia “Romagnosi” del Grande Oriente d’Italia, transitato nel 1973 nella più nota “Propaganda P2” da cui fu poi espulso dal Venerabile Licio Gelli. In occasione della recente presentazione a Tel Aviv del suo libro “Ben Gurion e la nascita dello Stato d’Israele”, Giancarlo Elia Valori ha avuto gradito ospite-relatore, tra gli altri, proprio Avi Pazner.
Abbandonata definitivamente la carriera diplomatica, nel 1998 il consigliere scientifico della Fondazione Roma Mediterraneo è stato eletto presidente mondiale del Keren Hayesod – United Israel Appeal (letteralmente “Fondo per le fondamenta”), una delle agenzie ebraiche fondate in occasione del Primo congresso mondiale Sionista (1920) per agevolare l’immigrazione degli ebrei nei territori della Palestina e che oggi raccoglie i fondi per “sostenere” lo Stato di Israele e i progetti di nuovi insediamenti di coloni. Keren Hayesod è particolarmente attiva anche in Italia con l’organizzazione di eventi culturali, dibattiti e conferenze, una delle quali (marzo 2004), ha visto la partecipazione del controverso giornalista statunitense Michael Leeden. Membro dell’ultraconservatore American Enterprise Insitute, Leeden è stato consulente del servizio segreto militare italiano SISMI, intervenendo con più di un’ombra su alcune delle vicende più
inquietanti della Repubblica italiana (il sequestro di Aldo Moro, il Dc-9 esploso su Ustica, l’ascesa della P2, ecc.) e finanche nello scandalo della triangolazione di armi USA a favore dell’Iran e della Contra nicaraguese a metà anni ‘80.
Anche Avi Pazner non nasconde una certa predisposizione per i canali della diplomazia parallela. “Della notte nel gennaio 1991 in cui scoppiò la Guerra del Golfo, ricordo la tensione ed una telefonata, alle 11 di sera, di un amico francese, un alto funzionario di Parigi, che mi avvisò che l’attacco era questione di 2-3 ore al massimo”, racconta l’ex ambasciatore. “Avvisai Shamir, che mise in stato di massima allerta le forze armate. Il Pentagono si fece vivo solo venti minuti prima che la Cnn trasmettesse il bombardamento su Baghdad”. “Eravamo certi di un attacco su Israele di Saddam Hussein”, aggiunge Pazner. “Il primo missile Scud arrivò esattamente 24 ore dopo l’attacco alleato. In quelle prime ore Shamir e gran parte del governo erano determinati all’attacco di rappresaglia, avevamo diritto di replicare, avevamo la capacità di colpire duro. Bush chiamò più volte Shamir e lo persuase a non reagire…”. A che tipo di
risposta si stesse pensando è lo stesso Pazner a spiegarlo con un’intervista a Il Tempo di Roma, il 27 ottobre 2001. In pieno clima “post 11 settembre”, il diplomatico fece sapere che contro gli estremisti islamici “Israele si prepara a combattere una guerra non convenzionale, batterica, chimica o nucleare che sia…”.
Due mesi dopo, nella fase più cruenta del conflitto scatenato da Israele in Cisgiordania, mentre i caccia e gli elicotteri bombardavano gli uffici di Yesser Arafat a Ramallah, Pazner, in qualità di portavoce del governo, spiegava che “l’obiettivo è la guerra al terrorismo”. “Arafat ne ha fatto un cinico uso strategico, e benché Sharon non lo abbia definito un terrorista, è chiaro che egli ha sostenuto e protetto le organizzazioni terroriste”, aggiungeva. “Arafat fa parte del problema terrorista che ha preso dimensioni gigantesche, insopportabili. E quindi gli attacchi di queste ore sono volti a segnalare che le sue organizzazioni sono parte del terrore…”.
L’ex ambasciatore ha le idee chiare su come imporre le “trattative” e la “pace” agli odierni rappresentanti del popolo palestinese. “Alcune delle richieste della Comunità internazionale sono inaccettabili”, spiega Pazner. “Si chiede il ritiro di Israele entro le frontiere del giugno 1967, ma noi non crediamo che quelle linee di armistizio, decise nel 1949 alla fine della guerra di indipendenza, siano qualcosa di sacro. Non sono confini internazionalmente riconosciuti, e ciò fa decadere le pretese suddette. Crediamo invece che potremo raggiungere una configurazione di confini per via di negoziati con i nostri vicini arabi attraverso degli scambi di territori sulla base dei cambiamenti demografici avvenuti negli ultimi 44 anni”. Inaccettabile infine qualsiasi ipotesi di ritorno in Israele dei profughi palestinesi espulsi dopo il 1947. “A queste richieste tutto il popolo israeliano dice concordemente no. Se questi arabi vorranno,
potranno tornare nel futuro Stato palestinese, ma non potremo mai accettare che milioni di arabi trasformino Israele in un secondo Stato palestinese. A loro non sarà mai concesso di tornare…”.
Bellicismo, cinismo e negazione del “dialogo interculturale” raggiungono l’apoteosi con le dichiarazioni rilasciate subito dopo il sanguinoso assalto della marina israeliana contro il convoglio Freedom Flotilla che si stava dirigendo verso la Striscia di Gaza (19 morti e 26 feriti). “Noi abbiamo provato a fermarli, abbiamo provato a farli venire nel porto di Ahsdot per poi trasferire gli aiuti umanitari a Gaza”, ha dichiarato Avi Panzer, ancora una volta portavoce del governo. “Ma non hanno voluto. Non volevano entrare in acque israeliane, non erano interessati agli aiuti umanitari, erano interessati alla provocazione. Ma non potevamo immaginare che fosse una provocazione armata. Hanno ferito dieci dei nostri soldati. E i nostri soldati hanno dovuto difendersi. Noi non permetteremo che nessuna nave arrivi a Gaza senza che venga esaminata…”.
Totale dissenso nei confronti degli organizzatori del Festival del Cinema di Taormina per l’“imbarazzante partnership” con la Fondazione Roma Mediterraneo è stato espresso dalla rete No Ponte che ha contestualmente chiesto ad Elia Suleiman di rifiutare il Premio Award per il Dialogo tra le Culture. “Il 14 maggio 2011 – scrivono in una lettera aperta al regista palestinese – abbiamo sfilato per l’ennesima volta per le vie del centro di Messina per ribadire il nostro No alla costruzione del Ponte sullo Stretto, espressione di una politica di sperpero di risorse pubbliche per opere inutili e devastanti dal punto di vista ambientale. Sul camion che trasportava il nostro impianto d’amplificazione abbiamo esposto una bandiera della Palestina con la frase Restiamo umani. Era il titolo del blog di Vittorio Arrigoni, il pacifista-reporter difensore del popolo palestinese, ucciso a Gaza. Abbiamo voluto legare, in tal modo, idealmente, la nostra
resistenza alla devastazione del territorio di cui è espressione il Ponte con la resistenza di chi mette in pericolo la propria vita per la difesa di una popolazione che vive sotto assedio”. Un popolo, quello palestinese, che del premio di Emanuele e Pazner preferirebbe farne a meno.
Grazie Compagno Simone. Articolo pubblicato.
Marco Piattelli
quando si copia si cita l’autore come minimo……uno passa mesi a scoprire le cose…tu le copi e le pubblichi come fossero tue
a chi ti riferisci? chi ha copiato cosa?
Ma siamo cosi’ sicuri che servano ancora le giovanili di partito?
Leggo che a queste elezioni sono stati eletti e nominati assessori un mare di giovani.
Alla provincia di Lucca,e’ stata nominata assessora una ragazza di Sel di 23anni,a Ravenna una 23 dell’Idv e un 24enne del Pd.
A Torino il 3 piu’ votato e’ Curto(30 anni),a Cagliari Zedda haa 35anni,a Milano sara’ nominata assessora(al lavoro e economia!)la Tajani di 33 anni.
A Iglesias la Testa aveva 31anni e si puo’ continuare.
Io non credo non abbiano piu’ senso le giovanili perche’ le giovanili di partito erano la scuola(teorica) per chi doveva fare il politico di professione.
Siamo in un epoca(e mi fa’ piacere)in cui la politica e’ nei fatti,nell’amministrare.
Non mi convincono piu’!
Un vero partito non ha bisogna di dividere i “grandi” dai “piccoli” come se fossero una riserva …. e’ roba da strutture novecentesche.
Nel Prc esistono davvero 6000/7000 giovani comunisti su un totale di 40.000(e quanti sono militanti inattivi?)quindi i Gc sono il 20% del Prc!
Sono il 20% i neoconsiglieri,neoassessori,saranno il 20% i futuri parlamentari?!
Fate come i rottamatori del Pd!
Nel Prc non c’e’ un Renzi che dica “fuori i dinosauri!”
Ferrero e’ stato ministro del governo Prodi!Ma vi rendete conto!
Rocchi e Rinaldi sono in segreteria!
Sodano(per carita’ bravo)fara’ l’assessore a Napoli!
Ma e’ stato ass. gia’ dal 95 al 01!E poi senatore!Poi consigliere provinciale!
20 anni pieni nelle istituzioni!
Salvi e’ un leader della FdS!
Ma come si possono definire i giovani del Pdci …. “giovani ribelli” quando hanno
segretario,una specie di monarca che comanda da 15anni!
Ma dai!
Ma che cacchio di giovani siete!
Noiosa teoria!
Caro Matteo,
condivido una cosa e non ne condivido un’altra di ciò che hai scritto.
Non condivido il mettere in contraddizione le giovanili di partito con gli eletti (giovani). Spostare il perno dell’iniziativa politica giovanile dai partiti alle istituzioni sarebbe un errore clamoroso, perché si crescerebbero giovani totalmente sfasati sul piano delle idealità e del progetto (posti e non militanza).
La politica è invece un’altra cosa, fatta di gratuità, di dedizione senza interessi, di militanza appunto e sono orgoglioso di lavorare da due anni al progetto di rafforzare l’organizzazione giovanile del mio partito.
Condivido invece il bisogno di rinnovamento che tu poni e, con tutti i nostri limiti, me ne sto facendo carico anche personalmente da un bel po’. E’ ormai evidente a tutti che con questi gruppi dirigenti (con poche, lodevoli, eccezioni) faremo ben poca strada.
Un abbraccio,
Simone
Beh … rileggendomi mi sono lasciato andare un po’ troppo nella 1 parte.
Rettifico.
Sintetizzando credo che ci voglia piu’ pratica e meno teoria ….
Tradotto credo che i nuovi leader(non mi dispiace questo termine,usciamo da questa fobia)saranno i bravi amministratori.
Se vogliamo sperare di avere un premier o aspiranti premier/leader poco piu’ che 40enni(come Zapatero,Obama e altri)un qualsiasi partito non puo’ non pensare di affidare al livello locale la vera scuola di cambiamento/formazione(per via anche delle nuove competenze che hanno gli enti locali).
Puo’ fare molto piu’ cose di sinistra un deputato o un assessore regionale o comunale di una grande citta’?
Insisto … sono cambiati i tempi!
Se tutte le elezioni dal 09 ad oggi,le avessimo usate per “lanciare” 3/4 futuri leader(e ri-uso questo termine)avremo fatto una santa operazione!
Invece? … beh spesso in quelle poche realta’ dove il Prc ha un discreto consenso in governo locali decenti che si fa’?
Sempre gli stessi e anche peggio!
Nominati assessori regionali addirittura ex-deputati!
Tra qualche anno chi raccogliera’ piu’ frutti di questa semina?
Che ci siano sempre gli stessi purtroppo è una triste, amara, verità. Non posso che essere d’accordo con te.
Insisto con il ritenere che però non si può risolvere il problema spostando i giovani dal partito alle istituzioni. Ma sul senso profondo, ci siamo. Siamo d’accordo! a presto, S.
… ma almeno un paio si pero’!
Ti lascio queste parole di Keynes: “Dobbiamo inventare una saggezza nuova per una nuova era. E nel frattempo, se vogliamo fare qualcosa di buono, dobbiamo apparire eterodossi, problematici, pericolosi e disobbedienti agli occhi dei nostri progenitori”.
Meraviglioso, grazie infinite. Spero che noi tutti si riesca ad essere all’altezza. Simone
Il dado (non) e’ tratto: alcune annotazioni sulle elezioni amministrative
di Fulvio Lorefice e Claudio Tancredi Palma
MILANO E L’ «EFFETTO PISAPIA»
La comparazione tra i risultati del primo turno delle comunali di Milano nel 2006 e quelle del 2011 non conforta la tesi del cd. «effetto Pisapia». In termini assoluti, infatti, il numero di voti raccolti dall’ex prefetto di Milano, Bruno Ferrante, espressione dell’ala meno progressiva del fu centro-sinistra, risulta addirittura superiore rispetto a quello di Pisapia. Anche dal punto di vista percentuale, peraltro, il risultato dei due candidati sindaci del centro-sinistra appare sostanzialmente sovrapponibile.
Nell’altro campo, il candidato del centro-destra Letizia Moratti perde 80.000 voti, mentre il Presidente del Consiglio, propostosi come capolista del Pdl, dimezza le preferenze rispetto a cinque anni fa. Appare perciò agevole leggere il successo di Pisapia nella crisi violenta che ha colpito il sistema di potere berlusconiano a Milano e al di fuori di essa.
Alla débacle del centro-destra al primo turno delle elezioni milanesi si accompagna il consistente arretramento della Lega Nord. È possibile ipotizzare che la spinta propulsiva di questo partito abbia raggiunto il picco alle ultime elezioni politiche, trovandosi ora in una fase recessiva. Ciò in ragione delle contraddizioni evidenziatesi nel corso dell’ultimo biennio tra alcune componenti del blocco sociale di riferimento cristallizzatosi attorno al partito di Bossi.
Venendo al risultato del centro-sinistra milanese va sottolineato quanto l’enfasi posta sul candidato «della società civile», sui risvolti taumaturgici delle primarie come metodo di selezione delle candidature, andrebbe se non altro valutata comparativamente e con attenzione. Certo, il risultato di Pisapia è in ogni caso considerevole e si deve primariamente alle qualità della persona, alla sua fama di «gentile democratico», infine al suo radicamento in una parte rilevante della borghesia milanese. Il risultato positivo registrato da Pisapia, in sintesi, si connette per un verso alla crisi dell’altro campo, per altro alla scelta di una candidatura qualitativamente forte. Il che tuttavia non deve indurre (o meglio continuare ad indurre) la sinistra di questo paese alla costruzione della rappresentanza sul terreno dell’esaltazione del momento monocratico. I dati dell’Istituto Cattaneo sottolineano, peraltro, che questo fenomeno riguarda in maniera più rilevante i candidati sindaco di centro-sinistra che quelli del centro destra.
IL REALISMO DI CONFINDUSTRIA
Nella valutazione della cosiddetta costruzione del «personaggio Pisapia» si consideri peraltro il ruolo di taluni notabili milanesi. Regista, non troppo occulto, della penetrazione nella borghesia milanese è l’ex dc, nonché primo presidente della Regione Lombardia, Piero Bassetti, il quale è riuscito a far convergere sul nome di Pisapia influenti personalità del mondo confindustriale e professionale (vedi il «Gruppo d’Iniziativa per il 51%»). Questo processo è stato reso possibile essenzialmente dalla crisi dialettica, in corso da diverso tempo, tra sistema berlusconiano e potere confindustriale, della quale Milano è solo una manifestazione eclatante (nel medesimo solco va inserita l’indicazione di voto per De Magistris al ballottaggio napoletano da parte dell’ex presidente di Confindustria D’Amato e la marcia silenziosa dei 2.000 partecipanti all’assemblea annuale di Unindustria Treviso il giorno prima dei ballottaggi).
La meccanica sovrapposizione, e intercambiabilità, del sistema di potere berlusconiano col potere confindustriale risulta dunque fuorviante.
In tal senso il «dinamismo» di Confindustria configura, più probabilmente, la ricerca di un nuovo referente nell’eventuale fase post-berlusconiana, atteso che con l’area del Terzo Polo non sembra essersi costruito (e potersi costruire) un canale privilegiato.
L’ASTENSIONISMO
Le analisi pubblicate in questi giorni dall’Istituto Cattaneo mettono in evidenza che, mediamente, c’è stato un calo della partecipazione di due punti percentuali rispetto alle ultime elezioni comunali. Va sottolineato il mediamente perché ad esempio a Cagliari e a Torino c’è stato un aumento (rispettivamente +3,9% e +1,8%), Milano è stabile, mentre a Bologna, Napoli, Reggio Calabria si è assistito ad un decremento (rispettivamente -5%, -7,4%, -7,6%). Impressionante il dato di Trieste (-17,8%). È tuttavia interessante notare che lo stesso istituto fa presente che il calo alle urne «si pone in continuità con una tendenza negativa di lungo periodo che pare inarrestabile».
Ai ballottaggi la partecipazione, eccezion fatta per Milano, è ulteriormente diminuita: il calo della partecipazione è stato maggiore al Sud che al Nord. A Napoli al ballottaggio ha partecipato al voto solamente il 50,58 % degli aventi diritto!
È sempre utile ricordare, richiamando alla mente un seminale filone di studi statunitensi degli anni settanta su questo tema, che esiste una correlazione positiva tra partecipazione e status sociale. I più istruiti e coloro che dispongono di maggiori risorse materiali tendono a partecipare in misura superiore rispetto agli altri, secondo un processo in cui inevitabilmente le diseguaglianze sostanziali tra gli individui si traducono in diseguaglianze politiche. Per queste basilari ragioni, sembra di poter dire che il problema dell’astensionismo è in qualche misura immanente alla stessa ragione d’esistenza (e quindi alla tenuta) di quelle forze politiche che si concepiscono solo in ragione della rappresentanza delle fasce marginali della società. I tassi decrescenti della partecipazione in Italia sottendono quindi una progressiva ritirata di questi ceti dal politico, senza che in questa fase le forze della sinistra siano capaci di arrestare la tendenza, con il conseguente rischio che questo elettorato potenziale converga verso forze che mettono in discussione orizzontalmente il sistema e che si connotano per un anti-capitalismo di facciata.
LA FEDERAZIONE DELLA SINISTRA
Il dato elettorale della FdS, considerando il quadro in cui è maturato, è tutto sommato dignitoso; il risultato delle precedenti amministrative (2006) maturava infatti in un quadro politico ben diverso. Raffrontando invece il dato odierno con quello delle precedenti regionali, secondo l’Istituto Cattaneo, per la FdS si registra una ripresa, specie al Nord e in Emilia-Romagna.
Un risultato, quello della FdS, che offre più suggestioni, talune anche contraddittorie, circa il quadro tattico e le relative alleanze. Il talismano del centrosinistra funge indubbiamente a Milano, non a Bologna. Un’alleanza solida e credibile contro il candidato del centro-sinistra va a gonfie vele a Napoli. A Torino, la capitale operaia, il risultato è deludente; pur tuttavia, in nome di quella coerenza minima che rende credibile un soggetto politico, una qualsiasi forma di alleanza col Pd di Marchionne, da alcuni velatamente recriminata ex post, oltre a costituire un grave errore avrebbe comportato l’impossibilità di mantenere una qualsiasi forma di interlocuzione con quelle componenti «coscienti», presenti nella fabbrica torinese, che più di ogni altre si erano spese nelle battaglia contro il referendum padronale.
Se, dunque, da un esame più analitico del voto della FdS non possono ricavarsi lezioni definitive, è però doveroso sottolineare che nel complesso essa risulta elettoralmente premiata quando sostiene candidati di sinistra, all’interno di una coalizione che tendenzialmente ma non necessariamente ricopre l’arco del fu centro-sinistra, mentre risulta penalizzata dove presenta candidati alternativi. La Fds, in questa dinamica ancora bipolare, si ritrova così ad esistere in funzione di un progetto politico altrui. Questa situazione da un lato rafforza l’ipotesi (in questi giorni divenuta già tesi) che la formula del centro-sinistra sia ancora la via maestra a distanza di quindici anni dall’avvento della stagione di Romano Prodi; dall’altra si traduce per la FdS in un opprimente stato di necessità piuttosto che in una flessibile opportunità politica. Appare dunque imprescindibile per la FdS recuperare una propria area di rappresentanza, e quindi di autonomia politica.
IL NODO DELLA RAPPRESENTANZA
L’unica verità auto-evidente che ci consegna questa tornata elettorale è la pressoché assoluta omogeneità nella distribuzione del voto della FdS tra le classi sociali.
La disaggregazione dei dati per zone metropolitane, tendenzialmente, non presenta percentuali maggiori nei quartieri operai, o nelle zone dove il disagio sociale è più forte. Si tratta di un fenomeno che certamente colpisce in modo trasversale il sistema dei partiti, ma che non può non suggerire inversioni di rotta per una forza partitica che deve trarre direttamente il suo alimento dalla base sociale che rappresenta e di cui è espressione. Occorre dunque porre nuovamente al centro dell’analisi politica la questione della rappresentanza dei lavoratori e delle classi subalterne.
Cari compagni,
condivido molto della vostra analisi. Grazie davvero per il contributo.
Simone
Ho letto il tuo intervento: sei stato bravissimo! continua così,
Gianni
ciao compagni.
sono felice, da gc sono felice che almeno noi si sia superato una divisione che nei fatti era pressochè quasi nulla.
ora però il problema che si pone è il seguente, siamo sicuri che un processo così accelerato non porti screzi al nostro interno o magari all’interno della Fgci?
Sicuramente, Michele! Ma come in ogni cosa della politica alla fine contano i numeri e chi riesce a fare egemonia. E su questo processo c’è l’impronta indelebile di Essere Comunisti (e non lo dico solo perché stiamo scrivendo sul blog di Oggionni)… con buona pace di chi nella Fgci ha un’altra idea e di chi nel Prc ha un’altra idea ed è stato obbligato e costretto a fare quello che ha fatto…
Andiamo avanti così. Questa struttura ha una guida, ha una testa (Essere Comunisti – Oggionni, anche se si è tolto, altra dimostrazione di grande stile, dal gruppo esecutivo) e ha un mare nel quale navigare!
Vedremo cosa succederà
era, ora un pò di buon senso,può produrre una buona politica mettersi in gioco fuori da stantii schieramenti quando e sopratuttto siamo in area della sx.auguri di buon inizio Aldo Gardi
avrei valuto positivamente l’unione, ma la scelta del nome mi sembra vergognosa, non ho parole…
non avrei avuto niente da dire se pur abbandonando il termine comunista, cosa da un certo punto di vista doverosa, avreste scelto un nome che richiamava, analiticamente o storicamente, il comunismo
sono dispiaciuto continuate ad andare avanti (o forse indietro) verso derive utopistiche
ma vergognoso che cosa? Ribelli, come i partigiani! Ribelli, come la gioventù comunista cubana! Alternativa Ribelle, come i due campeggi unitari di questi anni! Ma tu c’eri ieri e oggi? Se c’eri potevi intervenire e dire la tua!
Maria (Firenze)
cominciando dalla fine io non c’ero e non avevo motivo di esserci: non ho più l’età per una organizzazione giovanile, per impegni non sarei comunque potuto venire e non condivido le posizioni espresse dalla federazione. la gioventù comunista cubana si chiama Unión de Jóvenes Comunistas, Juventud Rebelde è il giornale della stessa; se volete prendere come esempio Cuba padroni di farlo ma non mi sembra che la federazione vada su questa strada. come i partigiani venivano chiamati, giusto; ma analizzando la situazione, i partigiani hanno il grosso merito di aver collaborato alla liberazione dal nazifascismo ma non andarono oltre, l’Italia rimase un paese capitalista anche se bisogna riconoscere che la forza dei “partiti operai” riuscì a far approvare una delle costituzioni “borghesi” più avanzate. (i partigiani erano espressione dell’antifascismo, nonostante il peso prevalente delle formazione garibaldine, quindi non era loro compito andare oltre quindi non avevano un obiettivo alternativo al sistema capitalistico.)
E ti sembra giusto e generoso dare giudizi di questo tipo (“vergognoso”) su una iniziativa politica dei giovani con cui tu nemmeno c’entri più?
E poi non capisco il senso delle cose che scrivi….. che c’entra che i partigiani non erano anticapitalisti??
Boh!!!! Lunga vita ad Alternativa Ribelle, lunga vita ai comunisti e soprattutto lunga vita ai giovani, che prendano in mano questi partiti scassati e scalcinati e ci facciano tornare a vincere!
in giro ci sono un mare di gente che dice di volere l’unione di tutti i gruppi che si definiscono comunisti, girando fra loro vedi che NON hanno nessuna intenzione di lasciare la loro casa politica , ma tentano di portare la loro idea , sono gente del SEl, RC PCML e altro , spero sia la volta buona !