Che nel Paese qualcosa stesse cambiando era evidente da diversi mesi.
Berlusconi è sempre meno il padre padrone di questa Italia. Lo si evince dalla lettura di tanti dati, a partire da quello relativo all’appuntamento più importante, su cui Berlusconi stesso aveva investito tutta la propria forza politica e simbolica: Milano.
A Milano Letizia Moratti non raggiunge il 42% dei consensi al primo turno e viene surclassata da quel Giuliano Pisapia che non è soltanto il candidato del centro-sinistra ma che è anche, e in primo luogo, un compagno, l’emblema di una volontà di cambiamento profondo e radicale che mai come oggi è la cifra del sentimento di molti, nel cuore della capitale del potere berlusconiano. A Milano, quindi, il centro-destra perde clamorosamente così come perde a Torino e a Bologna (città in cui non bisognerà aspettare il secondo turno per ratificare la sconfitta) e così come non vince a Napoli, pur in presenza di un centro-sinistra diviso e soprattutto colpevole in questi anni di un governo della città imbarazzante.
Questo, quindi, è il primo e forse più importante dato con il quale dobbiamo confrontarci e che non tarderà ad avere ripercussioni sulla tenuta del quadro nazionale che oggi, con ogni evidenza, assegna la maggioranza dei parlamentari ad una coalizione che non ha più la maggioranza dei consensi nel Paese.
A fronte di un Pdl in crisi e di una Lega Nord ben al di sotto delle aspettative, il centro-sinistra raccoglie i risultati migliori laddove mette in campo candidati esplicitamente di sinistra, non coinvolti nel mal governo, non identificabili con la vecchia classe dirigente e con i vecchi apparati di potere degli ultimi vent’anni. Fatta eccezione per Torino (dove pure Fassino non raggiunge le percentuali del suo predecessore Chiamparino), il centro-sinistra vince bene dove punta sulla sinistra. A Bologna il candidato del Pd Merola raccoglie meno voti delle liste che lo appoggiano e senza il grosso contributo di Amelia Frascaroli e della sinistra della coalizione non avrebbe mai superato il candidato del centrodestra. A Milano Pisapia raggiunge il clamoroso risultato già ricordato e a Napoli il candidato della Fds e dell’Idv, Luigi de Magistris, raccoglie addirittura più voti del candidato del Pd Morcone.
Questo indica appunto che le coalizioni di centro-sinistra possono funzionare (e vincere) a patto che mettano in campo candidati percepiti, per i programmi e per il proprio profilo individuale, come alternativi e soprattutto discontinui, a riprova del fatto che la radicalità non è un disvalore ma al contrario è lo strumento attraverso cui rimotivare un elettorato di sinistra troppo spesso disilluso e disincantato.
Dentro questo quadro va analizzato il risultato delle liste della sinistra. Sono certe due cose. La prima è che – non considerando l’ottimo risultato delle liste del Movimento 5 stelle, che meriterebbe un’analisi a parte – esiste a sinistra del Partito democratico un’area che può valere intorno al 10% dei consensi. La seconda è che i sondaggi circolati nelle scorse settimane, e che indicavano come ormai praticamente tutto lo spazio politico a sinistra del Pd fosse occupato da Sinistra Ecologia Libertà, si sono rivelati ampiamente inesatti. È vero che Sel si attesta pressoché ovunque come il primo partito della sinistra (e questo è un dato che va assolutamente considerato) ma è anche vero che il rapporto tra noi e Sel non è il rapporto tra Davide e Golia. A Napoli siamo entrambi intorno al 4%, a Milano la Fds è sopra il 3% e Sel sotto il 5%. Così in tanti altri capoluoghi di provincia (da Arezzo a Fermo e a Grosseto, da Ravenna a Rimini, da Rovigo a Siena) e in molte province (Lucca, Macerata, Mantova, Pavia, Vercelli) il rapporto non è dissimile. In altri capoluoghi (dalla Bat a Reggio Calabria a Savona) e alle provinciali di Reggio Calabria la Federazione della Sinistra ha percentuali più alte di quelle di SeL.
Fanno eccezione Bologna, dove il dato della Federazione della Sinistra (1,46%) è molto più che allarmante (ancor di più se confrontato con l’ottimo risultato della lista di Sel, che supera il 10% dei consensi) e Torino, dove l’alleanza con Sinistra Critica produce un risultato ancora più misero (1,15%).
Allora forse vanno tirate le prime somme: la Federazione della Sinistra è un progetto che pur tra grandi difficoltà e grandi limiti è in campo ed è un punto di riferimento importante per ogni progetto di ricostruzione e di rigenerazione della sinistra italiana. Di questo da oggi devono essere consapevoli anche i compagni di Sel, che evidentemente confidavano in risultati diversi. La condizione perché la nostra offensiva unitaria, che deve proseguire in maniera ancora più forte e più netta, produca i suoi effetti è che Sel abbandoni la presunzione di autosufficienza di questi ultimi mesi. Evidentemente un bravo leader e tanti passaggi in tv e sui giornali non sono sufficienti per occupare, da soli, lo spazio politico della sinistra italiana.
La seconda cosa che dobbiamo fare è imparare ad analizzare subito in maniera autocritica gli errori compiuti e i nostri punti deboli. Per questo penso che vada detto senza mezzi termini che a Torino abbiamo pagato una condizione di isolamento drammatico, non soltanto rispetto alla sinistra cittadina (e al centrosinistra) ma anche rispetto al sentire comune dei lavoratori torinesi, che evidentemente non abbiamo in alcun modo saputo interpretare. Una batosta clamorosa, mentre in diversi parlavano di “modello” torinese da esportare in tutta Italia.
Ed è questo il nodo, la questione centrale: tornare ad interpretare i sentimenti della nostra gente e costruire “modelli” sulla base della realtà e non della fantasia. A questo devono servire innanzitutto la Federazione della Sinistra e la sinistra unita.
Il dado (non) e’ tratto: alcune annotazioni sulle elezioni amministrative
di Fulvio Lorefice e Claudio Tancredi Palma
MILANO E L’ «EFFETTO PISAPIA»
La comparazione tra i risultati del primo turno delle comunali di Milano nel 2006 e quelle del 2011 non conforta la tesi del cd. «effetto Pisapia». In termini assoluti, infatti, il numero di voti raccolti dall’ex prefetto di Milano, Bruno Ferrante, espressione dell’ala meno progressiva del fu centro-sinistra, risulta addirittura superiore rispetto a quello di Pisapia. Anche dal punto di vista percentuale, peraltro, il risultato dei due candidati sindaci del centro-sinistra appare sostanzialmente sovrapponibile.
Nell’altro campo, il candidato del centro-destra Letizia Moratti perde 80.000 voti, mentre il Presidente del Consiglio, propostosi come capolista del Pdl, dimezza le preferenze rispetto a cinque anni fa. Appare perciò agevole leggere il successo di Pisapia nella crisi violenta che ha colpito il sistema di potere berlusconiano a Milano e al di fuori di essa.
Alla débacle del centro-destra al primo turno delle elezioni milanesi si accompagna il consistente arretramento della Lega Nord. È possibile ipotizzare che la spinta propulsiva di questo partito abbia raggiunto il picco alle ultime elezioni politiche, trovandosi ora in una fase recessiva. Ciò in ragione delle contraddizioni evidenziatesi nel corso dell’ultimo biennio tra alcune componenti del blocco sociale di riferimento cristallizzatosi attorno al partito di Bossi.
Venendo al risultato del centro-sinistra milanese va sottolineato quanto l’enfasi posta sul candidato «della società civile», sui risvolti taumaturgici delle primarie come metodo di selezione delle candidature, andrebbe se non altro valutata comparativamente e con attenzione. Certo, il risultato di Pisapia è in ogni caso considerevole e si deve primariamente alle qualità della persona, alla sua fama di «gentile democratico», infine al suo radicamento in una parte rilevante della borghesia milanese. Il risultato positivo registrato da Pisapia, in sintesi, si connette per un verso alla crisi dell’altro campo, per altro alla scelta di una candidatura qualitativamente forte. Il che tuttavia non deve indurre (o meglio continuare ad indurre) la sinistra di questo paese alla costruzione della rappresentanza sul terreno dell’esaltazione del momento monocratico. I dati dell’Istituto Cattaneo sottolineano, peraltro, che questo fenomeno riguarda in maniera più rilevante i candidati sindaco di centro-sinistra che quelli del centro destra.
IL REALISMO DI CONFINDUSTRIA
Nella valutazione della cosiddetta costruzione del «personaggio Pisapia» si consideri peraltro il ruolo di taluni notabili milanesi. Regista, non troppo occulto, della penetrazione nella borghesia milanese è l’ex dc, nonché primo presidente della Regione Lombardia, Piero Bassetti, il quale è riuscito a far convergere sul nome di Pisapia influenti personalità del mondo confindustriale e professionale (vedi il «Gruppo d’Iniziativa per il 51%»). Questo processo è stato reso possibile essenzialmente dalla crisi dialettica, in corso da diverso tempo, tra sistema berlusconiano e potere confindustriale, della quale Milano è solo una manifestazione eclatante (nel medesimo solco va inserita l’indicazione di voto per De Magistris al ballottaggio napoletano da parte dell’ex presidente di Confindustria D’Amato e la marcia silenziosa dei 2.000 partecipanti all’assemblea annuale di Unindustria Treviso il giorno prima dei ballottaggi).
La meccanica sovrapposizione, e intercambiabilità, del sistema di potere berlusconiano col potere confindustriale risulta dunque fuorviante.
In tal senso il «dinamismo» di Confindustria configura, più probabilmente, la ricerca di un nuovo referente nell’eventuale fase post-berlusconiana, atteso che con l’area del Terzo Polo non sembra essersi costruito (e potersi costruire) un canale privilegiato.
L’ASTENSIONISMO
Le analisi pubblicate in questi giorni dall’Istituto Cattaneo mettono in evidenza che, mediamente, c’è stato un calo della partecipazione di due punti percentuali rispetto alle ultime elezioni comunali. Va sottolineato il mediamente perché ad esempio a Cagliari e a Torino c’è stato un aumento (rispettivamente +3,9% e +1,8%), Milano è stabile, mentre a Bologna, Napoli, Reggio Calabria si è assistito ad un decremento (rispettivamente -5%, -7,4%, -7,6%). Impressionante il dato di Trieste (-17,8%). È tuttavia interessante notare che lo stesso istituto fa presente che il calo alle urne «si pone in continuità con una tendenza negativa di lungo periodo che pare inarrestabile».
Ai ballottaggi la partecipazione, eccezion fatta per Milano, è ulteriormente diminuita: il calo della partecipazione è stato maggiore al Sud che al Nord. A Napoli al ballottaggio ha partecipato al voto solamente il 50,58 % degli aventi diritto!
È sempre utile ricordare, richiamando alla mente un seminale filone di studi statunitensi degli anni settanta su questo tema, che esiste una correlazione positiva tra partecipazione e status sociale. I più istruiti e coloro che dispongono di maggiori risorse materiali tendono a partecipare in misura superiore rispetto agli altri, secondo un processo in cui inevitabilmente le diseguaglianze sostanziali tra gli individui si traducono in diseguaglianze politiche. Per queste basilari ragioni, sembra di poter dire che il problema dell’astensionismo è in qualche misura immanente alla stessa ragione d’esistenza (e quindi alla tenuta) di quelle forze politiche che si concepiscono solo in ragione della rappresentanza delle fasce marginali della società. I tassi decrescenti della partecipazione in Italia sottendono quindi una progressiva ritirata di questi ceti dal politico, senza che in questa fase le forze della sinistra siano capaci di arrestare la tendenza, con il conseguente rischio che questo elettorato potenziale converga verso forze che mettono in discussione orizzontalmente il sistema e che si connotano per un anti-capitalismo di facciata.
LA FEDERAZIONE DELLA SINISTRA
Il dato elettorale della FdS, considerando il quadro in cui è maturato, è tutto sommato dignitoso; il risultato delle precedenti amministrative (2006) maturava infatti in un quadro politico ben diverso. Raffrontando invece il dato odierno con quello delle precedenti regionali, secondo l’Istituto Cattaneo, per la FdS si registra una ripresa, specie al Nord e in Emilia-Romagna.
Un risultato, quello della FdS, che offre più suggestioni, talune anche contraddittorie, circa il quadro tattico e le relative alleanze. Il talismano del centrosinistra funge indubbiamente a Milano, non a Bologna. Un’alleanza solida e credibile contro il candidato del centro-sinistra va a gonfie vele a Napoli. A Torino, la capitale operaia, il risultato è deludente; pur tuttavia, in nome di quella coerenza minima che rende credibile un soggetto politico, una qualsiasi forma di alleanza col Pd di Marchionne, da alcuni velatamente recriminata ex post, oltre a costituire un grave errore avrebbe comportato l’impossibilità di mantenere una qualsiasi forma di interlocuzione con quelle componenti «coscienti», presenti nella fabbrica torinese, che più di ogni altre si erano spese nelle battaglia contro il referendum padronale.
Se, dunque, da un esame più analitico del voto della FdS non possono ricavarsi lezioni definitive, è però doveroso sottolineare che nel complesso essa risulta elettoralmente premiata quando sostiene candidati di sinistra, all’interno di una coalizione che tendenzialmente ma non necessariamente ricopre l’arco del fu centro-sinistra, mentre risulta penalizzata dove presenta candidati alternativi. La Fds, in questa dinamica ancora bipolare, si ritrova così ad esistere in funzione di un progetto politico altrui. Questa situazione da un lato rafforza l’ipotesi (in questi giorni divenuta già tesi) che la formula del centro-sinistra sia ancora la via maestra a distanza di quindici anni dall’avvento della stagione di Romano Prodi; dall’altra si traduce per la FdS in un opprimente stato di necessità piuttosto che in una flessibile opportunità politica. Appare dunque imprescindibile per la FdS recuperare una propria area di rappresentanza, e quindi di autonomia politica.
IL NODO DELLA RAPPRESENTANZA
L’unica verità auto-evidente che ci consegna questa tornata elettorale è la pressoché assoluta omogeneità nella distribuzione del voto della FdS tra le classi sociali.
La disaggregazione dei dati per zone metropolitane, tendenzialmente, non presenta percentuali maggiori nei quartieri operai, o nelle zone dove il disagio sociale è più forte. Si tratta di un fenomeno che certamente colpisce in modo trasversale il sistema dei partiti, ma che non può non suggerire inversioni di rotta per una forza partitica che deve trarre direttamente il suo alimento dalla base sociale che rappresenta e di cui è espressione. Occorre dunque porre nuovamente al centro dell’analisi politica la questione della rappresentanza dei lavoratori e delle classi subalterne.
Caro compagno Segretario, Paolo Ferrero, care compagne e cari compagni, condivido l’analisi politica della fase e non mi interessano le polemiche sterili nei tuoi/vostri confronti. Al di là della cancellazione mediatica pilotata da centrosinistra e da centrodestra la sinistra alternativa esiste perchè esiste e resiste il PRC che grazie all’abnegazione delle sue/dei suoi militanti
e con pochissini mezzi e soldi (sic!!!) è riuscita a bucare lo schermo non dei mass- media ma del silenzio stampa nei territori,
dove anzi, grazie ad una prassi fortemente connotata a sinistra, non consociativa ma ugualmente unitaria ha portato risultati
insperati. Dove abbiamo fallito vedi Torino (caro Paolo) o Bologna, o in altre situazioni, non ha pagato il paradigma che per
“essere più a sinistra” bisognasse inseguire e mimare pratiche minoritarie o settarie.
Così come voglio sottolineare ed esaltare anche nel tuo intervento di oggi alla Direzione Nazionale la “tua” forte valenza e caratura di Segretario Nazionale, unico ed indiscusso, di Rifondazione Comunista, per l’oggi e per il domani prossimo venturo (si mettano l’animo in pace i tuoi/nostri avventati detrattori interni): non soltanto per la forte sottolineatura della discontinuità
politica rispetto ad un recente passato ma per l’approccio unitario a sinistra con una logica di movimento nella società tesa ad unire più che a dividere, parlando chiaro e netto e puntando su candidature (anche non di Partito) capaci di interpretare una profonda, ragionata e di massa ansia di cambiamento.
Auguri ancora Paolo e tutte/tutti compagne e compagni. Siamo, restiamo e saremo ancora a lungo al vostro fianco per un lavoro collettivo iniziato ventanni fa, nel 1991, che è l’unica ragione che legittima contro tutto e contro tutti l’esistenza e la vitalità ancora non del tutto espressa del PARTITO DELLA RIFONDAZIONE COMUNISTA!!!!!!!!!!!!
HASTA LA VICTORIA SIEMPRE!
Il Comitato Politico Nazionale del Partito della Rifondazione Comunista esprime un sentito ringraziamento per la generosità e l’impegno con cui migliaia di compagni e compagne hanno affrontato la campagna elettorale. Nell’oscuramento mediatico di cui siamo oggetto, solo l’impegno e la credibilità dei compagni e delle compagne sui territori hanno permesso il raggiungimento del positivo risultato elettorale per la Federazione della Sinistra. Queste elezioni sono arrivate dopo una lunga stagione di lotte sociali dei lavoratori e delle lavoratrici, attraverso vari scioperi generali, dei precari, degli studenti, delle donne, in difesa della Costituzione e della libertà di informazione per la pace e contro la guerra che hanno contribuito ad incrinare il consenso ed il blocco sociale delle destre. L’impegno, la partecipazione, l’internità dell’azione politica della Fds con questi movimenti hanno anch’essi contribuito al raggiungimento del risultato elettorale. Il dato elettorale ci consegna cinque caratteristiche di fondo:
1) Innanzitutto le destre hanno subito una pesante sconfitta, in particolare a Milano ma non solo. Inoltre la perdita di consensi del PdL non si è travasata sulla Lega che ha perso consensi a sua volta. Il voto non rappresenta quindi solo una perdita di voti della destra ma incrina pesantemente l’asse di governo con la Lega che è il vero cemento della maggioranza.
2) In secondo luogo, il centro sinistra dimostra di poter vincere con candidati di sinistra e senza il centro. La crisi di Berlusconi non avviene su un piano centrista ma propone una domanda di sinistra potenzialmente maggioritaria nel paese. Gli eccellenti risultati di Pisapia e de Magistris premiano profili politici chiaramente di sinistra e – per quanto riguarda Napoli – in netta discontinuità con la fallimentare gestione di un centrosinistra consociativo. Emerge comunque la crisi di un bipolarismo non in grado di dare uno sbocco positivo alla crisi del paese.
3) Per quanto riguarda il risultato della Federazione della Sinistra – nel quadro di un a censura mediatica totale – è da considerare positivamente. Nelle elezioni provinciali andiamo avanti sia rispetto alla regionali che rispetto alle europee, sia pure in modo disomogeneo. Più articolata la situazione delle comunali dove hanno pesato moltissimo due fattori: il radicamento sociale del partito e la sua capacità di relazione con il territorio da un lato, la collocazione relativa agli schieramenti dall’altro. La collocazione a noi più favorevole è indubbiamente quella di coalizioni di sinistra in cui il profilo della coalizione era coerente con la nostra impostazione politica. Napoli, Milano, Macerata per non fare che tre esempi. Decisamente più difficile è il risultato – salvo situazioni con forte radicamento territoriale – dove siamo andati da soli o con schieramenti molto ristretti.
4) Per quanto riguarda il PD, il suo positivo risultato non ne chiude la crisi politica, anche se rafforza il suo gruppo dirigente. Napoli, Milano e Cagliari segnalano che si può vincere presentandosi con un profilo di sinistra, molto distante dalle propensioni centriste che albergano nel PD. Vi è quindi un significativo spazio di iniziativa politica in una situazione tutt’altro che stabilizzata. Relativamente alle altre forze della sinistra, nonostante l’enorme esposizione mediatica, SEL non raggiunge i risultati previsti dai sondaggi e l’IdV segnala un calo. Le forze politiche alla nostra sinistra non hanno risultati significativi indipendentemente dalla nostra collocazione. In generale si può dire che la sinistra tende a crescere ma che il tema dell’unità della sinistra non viene risolto dalle urne e rimane completamente aperto come problema politico.
5) Un discorso a parte, da approfondire, merita il consenso raggiunto dalle liste Grillo in particolare in Emilia Romagna ed in generale nel nord. Ci segnala un diffuso voto di protesta che viene raccolto da una proposta politica sbagliata. E’ quindi necessario operare per rispondere positivamente alle domande politiche che sono alla base del consenso delle liste Grillo sulla base di una proposta politica orientata a sinistra.
Il responso delle urne ci consegna quindi una situazione positivamente dinamizzata in cui Rifondazione Comunista e la Federazione della Sinistra hanno la forza e gli spazi per produrre l’iniziativa politica.
Il Comitato Politico Nazionale del Partito della Rifondazione Comunista decide per tanto:
1) Di realizzare il massimo impegno nei ballottaggi, a partire da Napoli e Milano, per dar vita a governi qualificati sul piano programmatico e con l’obiettivo complessivo di sconfiggere le destre.
2) Di sviluppare il massimo impegno nella campagna referendaria che deve decollare subito. Il tentativo del governo è quello di oscurare i referendum producendo l’impressione che il governo sia riuscito con qualche leggina ad evitarli. Così non è e noi dobbiamo renderlo evidente con l’obiettivo di raggiungere il quorum referendario e la vittoria del SI nei referendum.
3) Di costruire una estesa ed efficace campagna di mobilitazione sulle 5 emergenze sociali. Si tratta ovviamente di puntare oggi su ballottaggi e referendum per lanciare in modo forte la campagna dopo il 15 giugno.
4) Di proseguire e ampliare la mobilitazione per la pace e contro la guerra in Libia ed Afghanistan
5) Di impegnare tutto il Partito in una campagna contro l’oscuramento mediatico di rifondazione Comunista e della Federazione della Sinistra, così come di sviluppare l’utilizzo della rete che attualmente è completamente da noi sottoutilizzata. Su questo terreno occorre uno sforzo straordinario perché la comunicazione è un punto decisivo per la nostra impresa politica.
6) Di riproporre con forza, per dare uno sbocco politico alla crisi del governo Berlusconi, la costruzione di un fronte democratico tra le forze di sinistra e di centro sinistra che dia vita ad una legislatura di salvaguardia democratica, per la difesa ed il rilancio della Costituzione, il superamento del bipolarismo, il contrasto agli effetti sociali negativi della crisi. La nostra valutazione di fase, per quanto riguarda la non praticabilità di un accordo organico di governo, non rende meno necessario la qualificazione programmatica dell’alleanza da costruire facendo vivere percorsi e confronti unitari e a sinistra.
7) Di operare per il rilancio della Federazione della Sinistra, che rappresenta un punto fondamentale del nostro progetto politico. Si tratta da un lato di superare la situazione di empasse che si è venuta a creare a livello centrale, con la definizione degli organismi della Federazione. Dall’altra occorre raccogliere sui territori le positive relazioni costruite con realtà esterne in occasione delle elezioni amministrative, anche al fine di allargare la Federazione generando un vero e proprio processo costituente dal basso. Per noi il processo di costruzione della Federazione deve intrecciarsi con un più ampio processo di unità delle forze della sinistra di alternativa. Per questo riteniamo necessario proporre a SEL, all’IdV, ai Verdi e alle forze anticapitaliste, di dar vita ad un processo unitario al fine di costruire un polo politico della sinistra di alternativa. In questo quadro chiediamo alla Fds di proporre la costruzione di gruppi unitari delle forze a sinistra del Pd negli enti locali e di lavorare alla costruzione di una assemblea nazionale di queste forze per un confronto programmatico e la costruzione di una piattaforma comune. Tale percorso unitario è importante sia per costruire un punto di riferimento unitario di una sinistra plurale, sia per poter pesare fortemente nel confronto programmatico con il Partito Democratico, sia per radicare socialmente un polo della sinistra attraverso una rinnovata partecipazione democratica e costruendo una soggettività di massa. Pensiamo ad una proposta unitaria che non coinvolga solo i vertici dei soggetti politici organizzati, ma sia in grado di condurre nuovi processi partecipativi che valorizzino le tante storie personali e collettive di cui è ricca la sinistra nel nostro paese. Percorsi che intreccino iniziativa politica e ricerca per valorizzare il protagonismo dei soggetti individuali e collettivi, sia nell’elaborazione dei contenuti, sia nell’individuazione delle forme del processo unitario, sia nelle modalità della proiezione sul piano della battaglia politica che della rappresentanza istituzionale.
Per realizzare il complesso di questa iniziativa politica è necessario rafforzare il partito, il suo insediamento, il suo lavoro sociale. Mai come in queste elezioni si è vista una corrispondenza tra radicamento sociale e consenso elettorale. E’ questa la strada giusta su cui proseguire sviluppando l’intuizione del partito sociale. Occorre quindi una grande cura del partito: abbiamo la possibilità di rilanciare il nostro progetto politico, facciamolo al meglio dispiegando l’iniziativa politica e portando avanti le nostre proposte.
Il Comitato Politico Nazionale dà mandato alla segreteria di promuovere un’assemblea nazionale sulla riorganizzazione del partito e due grandi convegni: il primo sull’attualità del comunismo nella crisi della globalizzazione, il secondo sulla democrazia.
Dobbiamo aprire con questo spirito la fase congressuale, per puntare ad un congresso unitario, sulla base di una proposta politica chiara, puntando al superamento delle attuali componenti interne. Centinaia di migliaia di persone ci hanno dato la loro fiducia, utilizziamola responsabilmente per rilanciare le ragione di una alternativa di sistema.
Approvato a larga maggioranza
Pubblichiamo qui la versione riveduta e corretta del Manifesto Politico della Rete dei Comunisti, approvata dall’Assemblea Nazionale del 2-3 aprile 2011. Pensiamo che i nostri lettori potranno apprezzarne la – secondo noi – positiva evoluzione.
IL MANIFESTO POLITICO RETE DEI COMUNISTI
Siamo alla fine di un lungo sonno. Dopo l’89 i reazionari avevano deciso che eravamo giunti alla fine della Storia. Gli ideologi del postmoderno s’erano rapidamente accodati, spiegando che i fatti erano in fondo solo opinioni, o che le contraddizioni materiali del sistema economico in cui tutto il mondo vive si stavano smussando in un grande impero progressista, senza lasciare troppi residui conflittuali. Il desiderio di ogni classe dominante – «resteremo qui per sempre» – veniva narrato come una realtà virtuale sotto gli occhi di tutti. Chi non la vedeva era pazzo, vecchio, «ideologico» e fuori dal mondo. La crisi ha strappato il velo: il re è nudo. E zoppica pure vistosamente.
E’ quindi possibile oggi – sul piano del pensiero teorico, ma soprattutto su quello dello scontro sociale e politico – mettere in moto nuove energie intellettuali e fisiche, innervare con pensiero lungimirante i processi sociali che pretendono un cambiamento radicale. E’ possibile riannodare i fili della riflessione critica e promuovere l’organizzazione ex novo di una soggettività antagonista capace di formulare risposte all’altezza dei tempi. Dopo venti anni di capitalismo vittorioso e pensiero unico trionfanti, la Storia ha ripreso a correre. Guai a chi cammina o resta fermo a giocare con le macerie.
1. DALLA FINANZIARIZZAZIONE ALLA CRISI DI SISTEMA
Gli equilibri mondiali emersi negli anni ’90, dopo la fine del «socialismo reale», sono oggi tutti in discussione.
Il periodo della finanziarizzazione sembra aver esaurito la sua spinta propulsiva aprendo un nuovo scenario carico di pericoli, ma soprattutto di potenzialità. L’instabilità è ormai la condizione generale dello sviluppo sociale, politico e internazionale. L’Occidente – fin qui soggetto centrale dell’imperialismo – si trova ad affrontare un trauma senza precedenti.
L’irrazionalità capitalista emerge con chiarezza dalla distruzione di ricchezza, diritti, culture che ne avevano caratterizzato il periodo di espansione; mette fine al post-bellico «compromesso tra capitale e lavoro» e il degrado sociale investe ora direttamente i settori di classe interni ai paesi più avanzati. La crisi occupazionale, la precarietà generalizzata, il calo dei redditi da lavoro, la devastazione ambientale dei territori e la fine di ogni tutela sociale o legale, fino all’eliminazione dei diritti sociali e di quelli di genere, sono effetti che si riproducono con molte somiglianze a livello mondiale.
Sullo sfondo di questa regressione generalizzata, di questa autentica crisi di civiltà, traspare ora con nettezza il lavorìo della contraddizione fondamentale tra sviluppo delle forze produttive e rapporti sociali di produzione. Se la vogliamo dire in parole semplici, la potenza immane del sistema industriale esistente ha preso a girare a vuoto nel momento in cui lo scopo del produrre – il profitto – è diventato troppo «miserabile» per andare oltre. Questa potenza permetterebbe di sfamare fino alla sazietà l’umanità intera. Permetterebbe di ridurre il tempo di lavoro individuale a una frazione accettabile delle 24 ore, liberando tempo di vita per ciascuno. Ma un impiego socialmente utile di questa potenza implica un rovesciamento completo delle finalità della produzione, che parte dal chi decide cosa produrre, ridisegna il come farlo e come si ridistribuisce la ricchezza prodotta.
Lo strappo violento della crisi sistemica mette davanti agli occhi di tutti quella lampante contraddizione: si potrebbe fare di tutto, ma non possiamo fare nulla. E ci chiedono di subire, cercando di dividere chi è obbligato a lavorare sempre di più e chi deve inginocchiarsi per chiedere un lavoro. L’ostacolo diventa evidente: la proprietà degli strumenti, dei mezzi, delle macchine con cui si produce è in mano a pochi. E’ privata nel duplice senso: appartiene solo ad alcuni, tutti gli altri ne sono privi.
Quando questa contraddizione riemerge dal sottosuolo delle stratificazioni e diviene sensibile alla percezione comune si pongono, in senso quasi «tecnico», le condizioni oggettive per un’epoca di rivoluzioni sociali. La partita del potere si apre, senza soluzioni predeterminate. Ogni classe e ogni opzione politica fa il suo gioco. Ma il risultato, marxianamente, dipende da come si gioca.
Questa contraddizione che alimenta, dunque, il conflitto capitale lavoro nelle sue forme attuali e mondializzate, dà corpo materiale a quell’internazionalismo della classe che il movimento comunista ha sempre avuto come riferimento ma che, negli ultimi decenni, ha diluito in una solidarietà internazionalista doverosa ma sempre più generica perché confusa nelle sue finalità di classe.
Siamo insomma di fronte a un passaggio cruciale che – fra progressivo impoverimento in Occidente e contestuale sviluppo di altre aree – determina modificazioni sostanziali anche nelle figure che concretamente operano dentro i singoli contesti nazionali e continentali. La distruzione di ogni futuro per le giovani generazioni, la contrapposizione tra aspettative e realtà, accompagna la svalorizzazione di quelle funzioni produttive di carattere intellettuale che, da sempre, venivano considerate privilegiate e parti integranti del blocco sociale dominante.
Ma si presentano oggi altri limiti che il capitale non ha voluto o saputo considerare. La devastazione dell’ambiente e l’utilizzo dissennato delle risorse non riproducibili del pianeta – in diversi casi vicine o oltre il punto di non ritorno – si vanno ad aggiungere alla resistenza opposta dalla forza-lavoro.
Secondo diversi indicatori attendibili, ci troviamo già oggi molto vicini al punto in cui la devastazione ambientale ed il saccheggio indiscriminato della natura porta all’irreversibile esaurimento delle risorse. Questi due problemi, dunque, vanno collocati fin da subito dentro la prospettiva – e il programma – della trasformazione radicale dell’esistente. I popoli dell’America Latina ci sono arrivati per primi. E’ bene impararne la lezione.
Tale accumulo di contraddizioni non è più sopportabile neanche per la democrazia borghese. Vediamo in ogni paese dell’Occidente, sotto la pressione della crisi, avanzare una nuova idea di gestione del potere mutuato direttamente dalla cultura d’impresa. La governance viene a sostituire la ricerca della mediazione tra interessi diversi, funzione storica della democrazia parlamentare. La governabilità – per restare dentro gli asfittici confini italiani – è uno schiacciasassi che non tollera più i limiti posti dalla Costituzione antifascista. Si crea perciò una situazione contraddittoria: per un verso è indispensabile difendere ed estendere gli spazi democratici e difendere la Costituzione, per l’altro questa difesa impedisce di pensare un equilibrio sociale più avanzato, che vada oltre quei confini e un equilibrio sociale superato nei fatti.
La sfera politica, interna e internazionale, si mostra impotente davanti al potere devastante di organismi economici sovranazionali, di fatto irresponsabili di fronte a qualsiasi conseguenza sociale o nazionale e del tutto privi di «legittimità democratica». Lo scontro passa oggi per linee interne agli assetti dominanti, lungo le rime di frattura che si vanno creando nei rapporti tra imprese multinazionali, poteri statuali di forza altamente diseguale (la Cina non si fa certo «comandare», a differenza di paesi più piccoli), aree geostrategiche un tempo di importanza secondaria. Le possibilità di conflitto (interimperialista, anti-colonialista o anti-neocolonialista, di emancipazione complessiva – vedi il mondo arabo all’inizio del 2011) si vanno moltiplicando senza trovare nessuna istanza politica globale che possa corrispondere, sia pure imperfettamente, all’inestricabile interconnesione delle economie.
L’impossibilità di un «keynesismo del ventunesimo secolo» nasce qui. Ogni tentativo di riproporlo su base nazionale non può che accelerare – come negli anni ‘30 del secolo scorso – la prospettiva della guerra. Ma se non si può gestire in modo razionale l’economia, la politica diventa un luogo di gestione puramente passiva di vincoli decisi altrove. Non c’è quindi da stupirsi se assistiamo a un degrado etico e morale di dimensioni mai viste. E non parliamo certo solo dell’Italia berlusconiana.
Il pericolo della guerra appare in tutta la sua evidenza se si tiene conto che – a fronte della profonda crisi dell’imperialismo classico – si va affermando una crescita impetuosa dei paesi della periferia produttiva, dall’Asia all’America Latina, che rimette in discussione gli equilibri strategici del pianeta. L’espansione delle economie emergenti aveva fin qui permesso al «centro» una tenuta economica, sociale e politica, basata su uno scambio non esplicito: salari fermi, ma merci-base a prezzi inferiori o bloccati. Ora queste aree hanno un’autonomia relativa che permette anche un maggiore protagonismo politico. E’ un grande cambiamento, la dimostrazione delle grandi opportunità offerte dalla crisi. Non certo prive di rischi.
2. APPRENDERE DALLA STORIA. UNA QUESTIONE DI METODO
Siamo davanti a una crisi sistemica, dicevamo. Ma nessuna crisi, per quanto violenta, produce da sola la «crisi finale» del modo di produzione capitalistico. Per quanto devastanti possano esserne gli effetti, il «salto epocale» di sistema richiede un intervento soggettivo: ovvero una classe e un progetto. E se, all’inizio del movimento operaio, la visione globale era il portato soprattutto di un’analisi scientifica, oggi sono diventate visibili le condizioni comuni che caratterizzano non solo la forza lavoro in ogni paese del mondo, ma anche i limiti posti dall’ambiente e dalle risorse non riproducibili a una «ripresa» non traumatica del business as usual.
Ogni fideistica attesa della «catastrofe» che dovrebbe consegnarci un «nuovo mondo» va perciò allontanata come la peste. Così come ogni illusione – tipica delle «sette» politico-religiose – che «le masse» possano improvvisamente accorgersi che c’è già pronta una «linea giusta» pronta a guidarle.
La Storia ci insegna che – anche nelle fasi di grande confusione che possono sfociare in cambiamenti rivoluzionari – il risultato non è mai già scritto: Reazione e Rivoluzione sono entrambe in campo. E non possiamo negarci che i rapporti di forza oggi sono enormemente squilibrati; e non siamo noi quelli in vantaggio. Quella che abbiamo di fronte è quindi solo la possibilità della transizione. Un’occasione fornita dalla portata della crisi, non certo dalla soggettività politica oggi disponibile a livello globale. Perché è chiaro a tutti che – in una crisi sistemica – l’ordine di grandezza del problema della trasformazione si pone a questo livello. Per quanto ci riguarda più da vicino, dunque, almeno a livello europeo.
Quello della soggettività, in effetti, è stato un autentico punto di crisi del Socialismo sul finire del XX secolo. Tante le cause, di ordine sia storico che teorico. Potremmo elencarne molte, a partire dall’arretratezza della Russia pre-sovietica e dal peso che quell’arretratezza ha avuto – marxianamente – nel delineare i caratteri salienti del «socialismo possibile» nella prima metà del ‘900. Limiti che nulla tolgono all’assalto al cielo compiuto nel secolo passato, con centinaia di milioni di uomini e di donne, popoli interi, capaci di reagire alla barbarie imperialista e a due guerre mondiali. Un patrimonio inestimabile su cui scarsa è stata l’analisi e l’elaborazione teorica, tanto più indispensabile alla luce dell’autentico «crollo» verificatosi alla fine degli anni ‘80 e che non può certo essere ascritto a errori contingenti. Percorso da cui peraltro si distinguono, per motivi diversi, sia l’ircocervo cinese che la resistenza cubana.
I partiti che, specie in Italia, hanno gestito il «tesoretto» elettorale ereditato dal PCI, hanno preferito invece lucrare sulla simbologia e la retorica, mentre si adattavano senza troppi problemi a un’idea di governo come amministrazione dell’esistente.
Grande è, da questo punto di vista, la responsabilità, nel nostro paese, di chi si è intestato la Rifondazione Comunista, ma,nei fatti, ha lavorato per la rimozione e la demonizzazione di quell’esperienza, ignorando scientificamente un approccio critico (anche radicale) ma che rimanesse dentro il solco del pensiero marxista e del movimento operaio internazionale.
3. QUALE SOCIALISMO DEL XXI SECOLO?
La Storia non è però un archivio di soluzioni già pronte all’uso per affrontare i problemi dell’oggi, suggerisce analogie, fornisce spunti, avverte sui possibili errori. Ma in essa nulla si ripete, se non come farsa.
Non siamo un setta che attende la terra promessa. Non abbiamo in tasca un talismano che ci protegga dagli errori e ci guidi nelle scelte dure che la realtà pone ogni giorno. Dobbiamo perciò dire con chiarezza che per noi “il comunismo non è uno stato di cose che debba essere instaurato, un ideale al quale la realtà dovrà conformarsi. Chiamiamo comunismo il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente. Le condizioni di questo movimento risultano dal presupposto ora esistente”. E’ insomma un principio attivo, un motore di conflitto, un prodotto dell’esistente e al tempo stesso ciò che la trasforma. Ogni “progetto” che non tenga conto della realtà empirica, fuori dai processi di organizzazione e mobilitazione di massa, è solo un sogno.
Il presente globale ci fornisce innumerevoli esempi di conflitto, in forme anche impensabili solo 30 anni fa (i movimenti integralisti, per dirne solo una). Ma certo non ci dà più un “modello” di riferimento sul tipo di approdo, desiderabile o possibile, della trasformazione sociale. Si può vivere questa “libertà di pensare” con angoscia o come un formidabile stimolo per mettere al lavoro la capacità creativa. Per guardare in faccia la realtà e cercare in essa le soluzioni, le strade del cambiamento, i punti di frattura nel muro dello sfruttamento.
L’America Latina, anche grazie al ruolo storico di Cuba, ci consegna un esempio di quest’ultimo tipo. Le soluzioni differenti da un paese all’altro, 30 anni fa, sarebbero facilmente state tacciate di “riformismo”, oppure di “localismo”, “etnicismo” e così via. E invece sono oggi l’avanguardia del “movimento reale che abolisce lo stato di cose presente”, perché sono riuscite a mettere in radicale discussione il dominio dell’imperialismo USA proprio nel loro “cortile di casa” e a determinarsi in chiave anticapitalista.
Non possiamo dire – né loro lo dicono – che lì ci si trovi di fronte al “superamento del modo di produzione capitalistico”. Ma l’emersione di questa nuova realtà ha vivificato i movimenti di classe in varie parti del mondo, è diventata il luogo privilegiato dei social forum, aggregando forme di attivismo politico e sociale che altrimenti resterebbero disperse e non comunicanti. Fornisce spunti, idee nuove, ricchezza di soluzioni originali, spesso uniche e irripetibili. Indicano una strada concreta in direzione del socialismo possibile in quelle condizioni date. Rimettono lo sviluppo economico con i piedi per terra, dandogli finalità di eguaglianza e recuperando un rapporto sano con la natura, i suoi tempi, i suoi limiti. Ma soprattutto ricorda a tutti che nessuna idea può esser “giusta” se non sa conquistare il cuore e la mente di sfruttati e diseredati.
Altrettanto importante è anche la ripresa del movimento comunista in Asia, dal Nepal alle Filippine, fino al subcontinente indiano, un movimento che sta ponendo il socialismo come opzione credibile in grado di coniugare l’antimperialismo e l’anticapitalismo.
Certamente più problematica è una valutazione sul modello sociale cresciuto sotto la bandiera rossa di Pechino. Per un verso, ha rotto con i principi della rivoluzione maoista e dato vita a un poderoso processo di “accumulazione originaria” del capitale per far uscire il paese dall’arretratezza
contadina. Nel far questo ha consapevolmente messo a disposizione delle imprese multinazionali centinaia di milioni di propri cittadini, in condizioni di lavoro inumane e senza alcun diritto, né in fabbrica né fuori. Per altro verso, nel far questo, ha seguito linee progettuali che non prevedevano una “resa” al modo di produzione dominante, ma il suo utilizzo per raggiungere uno scopo. Dalla Cina non arriva affatto, dunque, un’indicazione di alternativa sociale universalmente valida. Tanto più se teniamo conto che la sua crescente potenza manifatturiera accelera tutti i processi che portano a scontrarsi con i limiti naturali invalicabili (clima, ambiente, risorse non riproducibili).
Sul piano geostrategico, invece, lo sviluppo cinese ha modificato i rapporti di forza globali. La delocalizzazione della manifattura ha lasciato infine l’Occidente imperialista privo di una leva fondamentale per l’accumulazione. Sul piano delle condizioni di vita, il miglioramento relativo dei livelli di reddito per la popolazione cinese (cui si è aggiunto il pesante contributo dell’India e di altri paesi “emergenti”) è andata di pari passo con l’impoverimento relativo delle classi subordinate dei paesi sviluppati. L’esplicitarsi dei caratteri strutturali e sistemici della crisi si è quindi tradotto, da questa parte del mondo, nel rapido accantonamento del “compromesso tra capitale e lavoro”, proprio mentre laggiù si cominciano a introdurre i primi istituti di welfare. La “convergenza” oggettiva dei livelli di reddito e degli stili di vita riduce i differenziali su cui le imprese son solite giocare per massimizzare i profitti e crea situazioni sociali meno distanti, composizioni di classe meno disomogenee. Avvicina i popoli perché rende simili i loro problemi e quindi anche le possibili soluzioni.
Segnali ambivalenti, su cui manca per ora un’analisi adeguata, ma che sconsigliano facili entusiasmi o condanne ideologiche che lasciano il tempo che trovano (declinabili – su fronti opposti – sia come “tradimento del comunismo” o come “mancato rispetto dei diritti umani”).
Il dato nuovo che deve interessare è di tutt’altra natura: con la crisi si vanno creando le condizioni oggettive che rendono contemporaneamente possibile e necessario, per l’umanità, porre all’ordine del giorno il superamento dell’attuale modello di sviluppo. Da forze, movimenti e stati storicamente esterni al “centro imperialista” come dal patrimonio storico, ma in tempo reale – possono venire suggestioni, analogie, “sponde”. Ma il compito di definire una strategia e un’azione politico-sociale che sia all’altezza della situazione e sagomata sulle caratteristiche dell’area in cui viviamo è per intero responsabilità nostra; dei comunisti presenti in ogni paese.
4. L’UNIONE EUROPEA, UN POLO IMPERIALISTA
Non possiamo che partire da un giudizio chiaro sulla natura della Unione Europea, un progetto imperialista ancora incompleto, ma che va avanti nonostante le crescenti contraddizioni dell’economia e della politica internazionale.
La nascita dell’euro ha segnato una svolta importante per la storia dell’Europa ma ha anche dato il segno del carattere strategico dell’Unione Europea nella competizione globale.
Le cause che hanno spinto il processo di unificazione economica europea sono profondamente strutturali e attengono pienamente alle dinamiche dello sviluppo capitalista. Il rapido sviluppo che le forze produttive hanno avuto, nell’ultimo trentennio nei paesi imperialisti dell’Europa, gli hanno consentito d’imporre una razionalità produttiva che, per sostenere i livelli di competizione e di ristrutturazione produttiva conseguente, ha imposto una dimensione economica, e quindi politica e statale, più ampia di quella fornita dalla sola dimensione nazionale dei singoli Stati europei.
Si è trattato, dunque, di scelte eminentemente politiche dettate dalla necessità di assecondare le dinamiche del capitalismo moderno. E’ in corso a livello globale un processo di costituzione in aree economiche e monetarie che non riguarda solo l’Europa ma anche gli altri stati imperialisti: gli USA, ad esempio, con il NAFTA e il tentativo di estenderlo a livello centro e latinoamericano, ma anche in Asia, prima intorno al Giappone, sebbene i tentativi siano falliti. Questa necessità di strutturarsi in blocchi di Stati integrati, per poi competere a livello globale, si presenta anche per i paesi della periferia produttiva dell’Asia, dell’America Latina, dell’Africa concretizzandosi con l’emersione dei BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica).
In questa fase storica in cui l’Euro si sta ormai conquistando un ruolo economico internazionale capace di competere con il dollaro, si vanno costituendo, con fusioni e acquisizioni, imprese europee capaci di superare la loro precedente base nazionale, assurgendo ad una dimensione transnazionale che influenza in senso reazionario le politiche delle istituzioni europee, le quali, a loro volta, condizionano pesantemente e sempre più frequentemente le scelte politiche dei singoli Stati nazionali. A chi lamenta l’inadeguatezza o il lento procedere della costruzione dell’Unione Europea, va fatto rilevare che, assai spesso, sono proprio gli europeisti più convinti a mostrare la loro insoddisfazione per un processo che avrebbero voluto molto più veloce e irreversibile anche attraverso una Costituzione Europea tecnocratica e molto lontana da una concezione di effettiva democrazia.
Abbiamo davanti agli occhi una nuova accelerazione dovuta all’acuirsi anche in senso politico e sociale crisi economica internazionale: il salvataggio del sistema finanziario, delle banche europee e l’esplosione del debito sovrano che produce un enorme trasferimento di ricchezza dalla classe lavoratrice ai detentori di titoli e alla finanza; tutto ciò rafforza la gerarchizzazione delle borghesie continentali e la costituzione, dentro questo quadro, di una vera e propria borghesia europea.
La borghesia tedesca si candida, più delle altre, a essere il nucleo forte della costituenda borghesia europea unificata. Emergono in tale contesto sia alleanze e contraddizioni con le borghesie degli altri paesi forti dell’Europa, quali la Francia e l’Inghilterra, sia una subordinazione gerarchica degli altri Stati europei più deboli quali la Spagna, la Grecia, il Portogallo, l’Irlanda e l’Italia. Una subordinazione che diviene totale per la vicina periferia produttiva interna alla Unione Europea come i paesi (ex socialisti) dell’est Europa.
Lo sviluppo della produzione, nella dimensione internazionale ed europea, ha determinato nell’ultimo trentennio (e continua a determinare) profonde modificazioni nella classe lavoratrice dei paesi imperialisti come in quelli della periferia. Nel polo imperialista europeo è andata creandosi una gerarchia legata al ruolo produttivo dei diversi paesi, generando condizioni oggettive e percezioni di se stessa da parte della classe lavoratrice, diverse dal passato e variamente modulate all’interno del proprio assetto attuale.
Al centro della produzione in Europa, ci sono infatti i livelli scientificamente e tecnologicamente più avanzati, la finanza e le grandi banche, lo sviluppo della società dei servizi e le aree dove il commercio e il consumo rappresentano il mercato maggiormente appetibile.
Con gli eventi nell’Europa dell’Est alla fine del XX Secolo, si è creata una prima periferia produttiva continentale dove il costo del lavoro è tale da poter produrre profitti elevati per le imprese del nucleo forte europeo e dove attraverso la disgregazione forzata o la debolezza degli Stati sono state prodotte condizioni ottimali per la finanza e le banche dell’Europa occidentale.
Ma è venuta emergendo anche una nuova periferia produttiva, istituzionalmente ancora esterna all’Unione Europea, situata nella sponda sud del Mediterraneo, una periferia che consente nuovi spazi per la realizzazione dei profitti aumentando lo sfruttamento della forza lavoro. Questa ambizione europea si disloca anche in Asia ed in America Latina.
L’Europa imperialista produce, dunque, una diversificazione della classe lavoratrice e delle classi subalterne che è funzionale alla stabilità e al proprio dominio politico. Il riconoscimento della nascita di un’aristocrazia salariata europea, con privilegi economici e sociali che oggi iniziano a essere erosi dalla crisi, è parte integrante dell’analisi marxista e leninista della società e pone problemi politici rilevanti e adeguamenti altrettanto importanti per le organizzazioni comuniste che agiscono nello spazio europeo. Infatti anche in uno dei cuori pulsanti del capitalismo, l’assetto prodotto dalle precedenti fasi di riorganizzazione internazionale deve oggi, fare i conti con la crisi di sistema che continuerà a caratterizzare i prossimi anni e che costituirà lo scenario nel quale sarà possibile ricostruire il terreno per la riaffermazione delle forze di classe.
5. ITALIA. UN CAPITALISMO SENZA BORGHESIA
L’Italia è parte integrante di questo processo, lo promuove e lo subisce con intensità superiore alla media, con la polarizzazione ormai evidente tra le pochissime imprese di dimensione multinazionale e la poltiglia delle microaziende senza alcuna autonomia progettuale.
Di conseguenza, difficilmente la nostra borghesia – se paragonata col resto dell’Europa – può meritare d’esser definita tale, in quanto non è classe dirigente. I gruppi più rilevanti fanno profitto sfruttando posizioni di monopolio o oligopolio acquisite grazie ai processi di privatizzazione, al parassitismo a spese dello Stato a stretto contatto – negli appalti e subappalti – con le grandi organizzazioni criminali. Sfruttano economie di scala nella concorrenza con la piccola impresa e contribuiscono a tener bassissimo il costo del lavoro. Un esempio concreto viene dalle banche, che hanno dato vita a un processo di concentrazione per fusione dopo la privatizzazione degli istituti di diritto pubblico e di quelli “di interesse nazionale”. Si vanno unificando così le quantità e le funzioni derivanti dalle rendite di posizione e di quelle immobiliari e finanziarie.
Profitti e rendite sono state salvaguardate anche eliminando gli investimenti in ricerca e sviluppo; mai con una politica industriale forte, come in Germania e in Francia. Del resto questa è una conseguenza diretta della volontà di limitare oltre il ragionevole “l’intervento dello Stato nell’economia”.
Incapace di sostenere la normale competizione capitalista (idolatrata a chiacchiere), è una borghesia che si è rifugiata in una condizione protetta ma debole, che oggi paga dazio a una storica debolezza strutturale. La crisi permanente della classe politica – da Tangentopoli in poi – è lo specchio di una classe senza spina dorsale, che rende di fatto impossibile un compattamento intorno a progetti-paese. Centrodestra e centrosinistra ne sono espressione fedele e impotente.
Una borghesia, dunque, da sempre e per sempre forte con i deboli e debole con i forti, incapace di essere classe dirigente ma solo classe dominante. La sua crisi rischia di far pagare al nostro paese un prezzo molto più salato del solo arretramento economico e “competitivo”. Sta rapidamente perdendo ruolo in Europa e precipita verso una posizione subordinata e ininfluente, prefigurando un futuro non troppo dissimile da quello della borghesia meridionale durante il processo di unificazione nazionale dell’Italia.
Un quadro che rende ancora più critica la condizione dei lavoratori, sotto ogni tipo di azienda o condizione contrattuale (“stabili”, precari, in nero). Qui più che altrove è stato violento l’arretramento sul piano sindacale, salariale, dei diritti. Perché qui più che altrove il movimento operaio aveva realizzato conquiste poi incardinate in atti legislativi, riforme del welfare, istituzioni e corpi sociali intermedi. Un processo di smantellamento iniziato assai presto (l’abolizione del “punto di scala mobile”, voluta da Craxi addirittura nell’84) e che ha subito un’accelerazione violenta dalla metà degli anni ’90 in poi, qualsiasi fosse la composizione del governo in carica. Un processo che ha coinvolto i sindacati confederali, inchiodati al patto di concertazione fin dal 1993, ed ora in caduta libera nella “complicità” neocorporativa.
Una situazione difficilissima, risultato della mutazione genetica dei partiti e dei sindacati della sinistra storica, più ancora che delle modificazioni nella composizione di classe.
Questa Italia, dunque, dentro il processo di unificazione europea, viaggia in direzioni opposte: dentro il nucleo forte dell’Europa, attraverso l’apparato produttivo del nord e, in parte, verso la marginalizzazione. Una polarizzazione che aggrava la permanente questione meridionale e ha fatto crescere, nel nord del paese, pericolose derive separatiste e apertamente razziste.
L’aristocrazia salariata di casa nostra ha visto modificarsi la propria condizione economica e, nel crollo delle soggettività di sinistra, anche la coscienza di sé. La propensione razzista verso gli immigrati, percepiti come un pericolo per il mantenimento del proprio status sociale, affonda in parte la sua ragion d’essere nella confusa consapevolezza che il vecchio sistema sta cadendo a pezzi. La Lega e il berlusconismo si sono inseriti in queste paure di massa, alimentandole a cavalcandole senza riserve.
E’ un quadro molto diverso da quello che era stato ereditato dal dopoguerra e fino a metà degli anni ’80. Per chi, come i comunisti, si pone l’obiettivo della trasformazione sociale, diventa perciò fatale qualsiasi coazione a ripetere vecchie soluzioni, argomentazioni, slogan. E soprattutto qualsiasi tentazione di “arroccarsi” nella pura gestione di un patrimonio di consensi ormai in scadenza (sul piano elettorale), così come nella dimensione di “piccola comunità ideale”. Due tendenze manifestatasi ampiamente nel corso dell’ultimo decennio, quando la dimensione meramente istituzionale ha prevalso su tutto.
6. LA PROPOSTA POLITICA DELLA RETE DEI COMUNSITI
Fino alla seconda Assemblea Nazionale del 2007 la Rete dei Comunisti ha agito come una sorta di intellettuale collettivo al «servizio» dell’azione politica e sindacale e della ricostruzione di un punto di vista comunista della realtà. Non abbiamo mai inteso essere un «cenacolo», al contrario abbiamo sempre ritenuto doverosa e discriminante l’internità dei militanti ai movimenti reali che si esprimono sul piano delle lotte sociali, per la solidarietà internazionalista, per il sindacato di classe, né ci siamo mai sottratti al dibattito sulla rappresentanza politica che oggi riguarda materialmente pezzi significativi del blocco sociale antagonista e della sinistra di classe. Sta qui la dialettica tra progetto strategico della Rete dei Comunisti e capacità di agire nelle lotte e nei movimenti sociali, senza rinunciare alla battaglia delle idee e all’analisi critica della nostra storia passata e presente.
Abbiamo definito questa modalità di concezione e di azione politica come articolata su “tre fronti”.
A) Il “fronte strategico” attraverso la ricostruzione di una analisi e di un punto di vista comunista della realtà, un processo iniziato a metà degli anni Novanta che ha sviluppato la ricerca e l’attualizzazione su temi come l’imperialismo, la composizione e l’inchiesta di classe, le caratteristiche del conflitto tra capitale e lavoro, il passato e il presente delle esperienze di transizione al socialismo
B) Il “fronte politico” che ha sempre avuto ben presente l’esigenza della rappresentanza politica (anche elettorale) come espressione però di interessi di classe definiti e organizzati e non – dunque – di mera rappresentazione di residue storie politiche e personali della sinistra per quanto dignitose esse possano essere.
C) Il “fronte sociale” dell’organizzazione diretta dei settori del blocco sociale antagonista tramite il conflitto di classe nei posti di lavoro e nelle aree metropolitane, un processo questo che ha le sue radici, esperienze, elaborazioni e convinzioni sin dagli anni Settanta.
Abbiamo inteso articolare la nostra azione politica su tre fronti perché la loro sintesi nel nostro paese è andata liquidandosi nel corso del tempo, sia sotto i colpi dell’avversario e delle modificazioni nella realtà sociale, sia per le crescenti contraddizioni interne dei partiti comunisti esistenti.
Rimettere in campo una nuova e immediata sintesi tra strategia, organizzazione del blocco sociale antagonista e rappresentanza politica di classe, non ci è sembrato in questi anni un traguardo accessibile. Più volte e pubblicamente abbiamo dichiarato la nostra non autosufficienza come organizzazione politica comunista per riempire un vuoto che si è andato allargando negli anni.
Nasce da questa coscienza comune la decisione di procedere “a rete”, riconnettendo un tessuto di quadri, militanti, attivisti, intellettuali comunisti, consapevoli dei passaggi da operare e liberati culturalmente dal macchiettismo che produce continuamente piccoli e nuovi partiti comunisti, generali senza eserciti, o eserciti di attivisti sociali ma senza una sintesi generale con i piedi saldamente piantati a terra.
Questa concezione dei tre fronti è stata spesso poco compresa o talvolta avversata da compagni che hanno perpetuato una concezione riformista del partito comunista o una “affascinante” ma finora inefficace sintesi tra soggetto politico e soggettività sociale.
Con la terza Assemblea Nazionale della Rete dei Comunisti abbiamo inteso precisare le caratteristiche e le ambizioni possibili di tale proposta.
A. LA COSTRUZIONE DEL PARTITO DEI COMUNISTI
Il documento e l’incontro nazionale del febbraio 2010 su “Organizzazione e Partito” ha messo nero su bianco la nostra elaborazione sul partito comunista, inteso come “partito di quadri con funzione di massa”. In essa vi è l’analisi sulla realtà in cui siamo chiamati ad agire (un paese intermedio ma nel cuore del capitalismo maturo), sul nesso tra il partito e la composizione di classe esistente e nella collocazione del nostro paese nella divisione internazionale del lavoro, sulla funzione di un partito comunista dentro la complessità di una società come quella in cui viviamo nel XXI Secolo. La nostra concezione di partito confligge apertamente con quella venuta imponendosi negli anni, che ha visto prevalere i partiti dei funzionari, organizzazioni della mera propaganda, apparati elettorali e della predominanza dei gruppi parlamentari sulla vita politica e sulle priorità.
Abbiamo potuto verificare come militanza e organizzazione siano diventate due esperienze desuete nella formazione e nella sperimentazione di migliaia di compagne e compagni nel nostro paese. Dalle teorizzazioni del “partito leggero” alla realtà dei partiti come “apparati elettorali” o dei nuovi “partiti ad personam”; l’idea stessa dell’organizzazione come ambito per l’aggregazione, la formazione, la discussione, la comprensione, l’attivizzazione dei compagni e come strumento indispensabile del conflitto sociale, è stata demolita. La militanza si è ormai trasformata solo in adesione tramite tesseramento, in una attività quasi dopolavoristica nelle sedi (quando ci sono), in propaganda e campagne elettorali. Costruire soggettività e identità politica con questi criteri si è rivelato devastante per una idea anche minima di militanza attiva e di radicamento sociale.
Riaffermiamo, dunque, la nostra concezione di partito come intellettuale collettivo piuttosto che come “appendice del segretario e delle sue capacità”. Ma è anche una concezione processuale della sua costruzione che nega al partito il valore feticista che gli si è venuto attribuendo come soluzione taumaturgica di tutti i problemi. In tal senso affermiamo che in questo processo di costruzione del partito la Rete dei Comunisti non è e non ritiene di poter essere autosufficiente. Ne deriva che intendiamo facilitare – anche formalmente – in ogni modo i processi di confronto, convergenza, amalgama con altri compagni e soggettività comuniste che lavorano nella stessa direzione. Rivendichiamo come nostra la storia del movimento comunista del XX, ne rivendichiamo gli errori e i successi ma intendiamo indagarne e comprenderne a fondo le contraddizioni. La trascuratezza nell’elaborazione teorica, la scarsa conoscenza della storia e lo schematismo che hanno dilagato in questi ultimi trenta anni, sono stati un ostacolo ad un serio bilancio storico ed hanno spianato la strada alle posizioni liquidazioniste che oggi si offrono di nuovo come soluzione alla crisi della sinistra e dei comunisti.
B. RAPPRESENTANZA POLITICA INDIPENDENTE E FRONTE POLITICO-SOCIALE ANTICAPITALISTA
I comunisti non possono sottovalutare le contraddizioni che si sono accumulate in questi anni e i conti che gli presenta la storia. Non esiste più il tesoretto elettorale del PCI, né rendite di posizione che consentono di dare come scontata la credibilità e la funzione emancipatrice che hanno avuto nella storia. La funzione dinamica e di avanguardia dei comunisti va completamente riconquistata dentro le contraddizioni e le forze sociali. Quando parliamo di rappresentanza politica indipendente del blocco sociale antagonista intendiamo riaffermare la centralità dell’autonomia degli interessi di classe da quelli delle compatibilità di sistema. L’espressione organizzata di questi interessi, anche sul piano elettorale, confligge apertamente con ogni subalternità alla logica bipartizan di gestione della crisi ed a forze politiche che dichiarano apertamente di voler cooptare i lavoratori dentro al patto neocorporativo. Voler battere Berlusconi non significa consegnare nuovamente le classi subalterne nelle mani dei suoi competitori nelle banche, nella Confindustria e nell’establishment dell’Unione Europea. I comunisti non possono che lavorare ad una rappresentanza politica indipendente e di classe che sia il risultato di alleanze sociali di segno anticapitalista.
Allo stesso tempo non è possibile ignorare che la soggettività antagonista che si esprime nella società non è tutta nè solo dei comunisti. Nel conflitto di classe sono venuti emergendo attivisti e movimenti sociali anticapitalisti che non riconoscono la propria identità dentro quella comunista. E’ così nel nostro paese ed è così in molte parti del mondo. I soggetti politici della trasformazione sociale sono oggi molto più articolati di quanto lo siano stati in passato. Il confronto e l’azione comune con queste soggettività presuppone rapporti leali e identità politiche definite. La ricomposizione di un fronte politico-sociale anticapitalista che includa organizzazioni sociali, sindacali, ambientaliste, soggetti politici, intellettuali antagonisti o democratici su una piattaforma politica e sociale avanzata, può e deve diventare un percorso praticabile anche in un paese a capitalismo maturo come l’Italia. E’ dentro e non fuori questo fronte politico-sociale che i comunisti debbono e possono svolgere una funzione propulsiva e non meramente strumentale o propagandistica.
Occorre riaffermare con forza come la rappresentanza politica non può che essere l’espressione organizzata degli interessi del blocco sociale antagonista e dei settori sociali che lo esprimono. Si tratta dunque di una visione estremamente diversa da quella di compagni che la interpretano come mera rappresentanza elettorale o semplice coordinamento delle forze della sinistra. Confondere questi due livelli ingenera confusione e riproduce quel politicismo da cui occorre liberarsi con estrema decisione.
C. IL RAPPORTO DI MASSA E IL FRONTE SOCIALE
L’elemento dirimente per ogni prospettiva credibile di ricostruzione dell’opzione comunista in Italia o di una rappresentanza politica del blocco sociale antagonista, è il rapporto tra i militanti e i settori sociali. Un rapporto che non può certo fondarsi solo sulla propaganda (tantomeno solo sulla propaganda elettorale) ma che deve essere un nesso stretto e inscindibile nella funzione dei comunisti. Quando negli anni Settanta si era parlato di “proletarizzazione” dei militanti non si indicava una prospettiva di tipo missionario quanto un approccio alla realtà e un metodo di lavoro.
In questi anni abbiamo elaborato, costruito e praticato un metodo nel lavoro di massa attraverso la costruzione del conflitto sociale organizzato, sia nei posti di lavoro sia nelle aree metropolitane; una ipotesi che riprende esperienze già sperimentate in passato e tenta di adeguarle alla realtà e alla complessità sociale di oggi.
L’individuazione delle aree metropolitane come ambito in cui quantità e qualità delle contraddizioni di classe possono ricomporsi in fronte di lotta e blocco sociale antagonista in presenza di una profonda frammentazione sociale, indica concretamente una ipotesi di sperimentazione, radicamento e ricomposizione di classe a nostro avviso decisivi. La questione del rapporto di massa è un terreno di verifica importante nel ruolo dei comunisti in una società integrata nel cuore sviluppato del capitalismo, soprattutto perché intendiamo una rapporto di massa organizzato e non limitato alla propaganda.
Alla disgregazione materiale e culturale indotta dalla riorganizzazione produttiva e sociale del sistema occorre dare risposta con un forte ruolo della soggettività politica dei comunisti nei processi di ricomposizione del conflitto di classe, ma sarebbe un errore clamoroso pensare di avviare questi processi fondamentali a partire dalla “politica” e non dalla comprensione teorica di come si costruisce il rapporto di massa, qui ed ora. Far crescere il rapporto di massa organizzato, e di conseguenza la coscienza di classe, fornire ai quadri politici un metodo di lavoro e degli strumenti interpretativi adeguati alle caratteristiche della classe reale è un compito al quale i comunisti non possono sottrarsi.
7. COSTRUIRE L’ORGANIZZAZIONE DEI COMUNISTI
Il punto è, allora, cosa sono i comunisti oggi e cosa fanno nell’Italia e nell’Europa appena descritte. Certamente la questione del partito, dell’organizzazione, del rapporto di massa sono le questioni concrete cui dare una risposta più adeguata possibile alle condizioni in cui si opera, ma vengono prima alcune questioni di fondo, alla base, cioè, di ogni processo di riorganizzazione dei comunisti, attenendo alla funzione che questi devono svolgere nell’indicare una diversa idea di società e di relazioni sociali.
La prima questione che riteniamo fondamentale è quella del senso del collettivo. Gli ultimi decenni sono stati devastanti dal punto di vista della cultura politica dei comunisti. La crisi politica e la dimensione pervasiva delle relazioni istituzionali, vissute come esclusive e autoreferenziali, ha prodotto un individualismo diffuso, una competizione personale e un arrivismo indecente che ha smontato, pezzo a pezzo, un patrimonio unico nell’occidente capitalistico: quello del movimento operaio, del PCI e dell’intero movimento degli anni ’70. Questa mutazione è stato il riflesso assorbito passivamente dai comunisti verso la modifica dei rapporti di forza tra le classi, della ripresa di egemonia dei valori borghesi che ha riguardato la classe ed il popolo del nostro paese ed ha portato al tradimento di quella democrazia progressiva obiettivo delle lotte popolari del dopoguerra. Su questa seconda natura posticcia, acquisita dai comunisti e dalla sinistra in genere, va dato anche un netto giudizio etico: la corruzione intellettuale subita, sebbene non sia il punto centrale, ci obbliga, infatti, ad assumere posizione anche su questo piano.
Il danno principale, per i comunisti italiani, è stato, invece, l’effetto prodotto da questi comportamenti: la distruzione dell’indipendenza delle organizzazioni di classe e il cui metro di valutazione obiettiva, oggi, sono i sempre più disastrosi risultati elettorali e la perdita d’indipendenza che ha avuto conseguenze profonde e devastanti nella battaglia delle idee per una concezione alternativa del mondo. Ricostruire, nella realtà odierna l’identità, la militanza e il senso del collettivo è, dunque, un compito primario da svolgere.
È il ruolo della teoria, l’altro terreno saccheggiato: l’oblio e la mistificazione di un pensiero forte che, lungi dall’essere fuori dal tempo, funziona ancora oggi, e cioè il marxismo. Anche questo è un segno della lotta di classe in atto: la forza del movimento operaio è stata la potenza di un pensiero razionale che sapeva interpretare il mondo e le sue dinamiche. Aver abdicato a questa funzione, aver favorito l’egemonia del pensiero debole, come anche aver sistematicamente anteposto il politicismo all’interpretazione e all’analisi, ha portato alla situazione attuale. La qualità della elaborazione teorica rimane centrale per una ricostruzione che, per quanto non dogmaticamente legata al passato, allo stesso modo non getti, però, il bambino con l’acqua sporca, riprendendo quegli elementi di teoria validi per l’azione, per recuperare, così, capacità d’analisi e d’intervento sul presente che calate compiutamente all’interno delle strutture socio-economiche e politico-culturali del momento, assumono tutta la loro specificità e tutta la loro dirompente forza di trasformazione: altro che ferri vecchi!
Se una critica deve esser mossa al movimento comunista del ‘900 – tutto intero – è di aver subordinato la teoria alla linea politica. Aver insomma messo la teoria al servizio – o a giustificazione – di scelte che sono sempre politiche. E come tali soggette ad errore. Non è avvenuto soltanto per l’Urss o il Pci. Ogni “eresia” di sinistra, nel secolo scorso, ha seguito l’identico schema, magari solo per giustificare scelte diverse o leader poi sconfitti.
Infine: il rapporto di massa. Non esiste nessuna seria “organizzazione comunista” se non è radicata nella classe e nel conflitto. Non si forma nessun quadro comunista se non si fanno i conti in prima persona con la realtà delle “masse” concretamente esistenti. Quando un “rivoluzionario” si scopre “senza un popolo”, vuol dire cha ha perso il sentiero. Il rapporto di massa è l’unico terreno di verifica delle capacità individuali e collettive di “costruire organizzazione”. Ogni ipotesi strategica o di linea politica, se non riceve il conforto della verifica di massa, resta una pura ipotesi. Ogni argomento che non “fa presa” su un interlocutore di massa reale, o è sbagliato o è “detto” in modo incomprensibile. Tra gli anglofoni si parla inglese, non italiano o latino.
Alla disgregazione materiale indotta dalla riorganizzazione produttiva e sociale si risponde con un forte ruolo della soggettività nei processi di ricomposizione del conflitto di classe; pensare di farlo partendo immediatamente dalla “politica” – magari intesa o nella sua dimensione più autonoma e astratta – significa continuare a seguire una via senza uscita. Far crescere il rapporto di massa organizzato, e di conseguenza la coscienza di classe, fornire ai quadri politici un metodo di lavoro e di verifica delle proprie ipotesi, è invece un compito cui nessuno si può sottrarre. Noi per primi, ovviamente.
E’ partendo da questi elementi che vanno intrapresi i processi di ricostruzione. Crediamo di poter affermare, perciò, che oggi l’Organizzazione dei comunisti non può che avere il carattere della militanza dei quadri e anche quello della ricerca di una qualità intesa come capacità edificatrice di un punto di vista organico al mondo moderno, quindi, recuperare quella “conoscenza del rapporto tra tutte le classi dal punto di vista della classe operaia” come viene ricordato nel “Che Fare?”. Il carattere militante dei quadri non significa ipotizzare una chiusura settaria ma è, al contrario, la condizione presupposta e necessaria per sviluppare al massimo una funzione di massa, per costruire processi larghi di organizzazione dovunque questo sia possibile, al di là di ogni concezione schematica e ossificata della classe e che coinvolga, invece, tutti i settori sociali, culturali e produttivi che hanno il comune interesse a una trasformazione sociale.
Solo così – ci sembra – diventa chiara la funzione dei progetti di costruzione della rappresentanza sociale, sindacale e politica – organizzata e indipendente – del blocco sociale penalizzato sia dallo sviluppo che dalla crisi del capitalismo.
E’ su questa chiarezza, su questa dimensione del fare, che fondiamo il senso stesso dell’agire da comunisti oggi. Perché siamo ciò che facciamo, non quel che diciamo – magari a noi stessi – di essere.
IL REGOLAMENTO DELLA RETE DEI COMUNISTI
Approvato all’Assemblea Nazionale del 2 e 3 Aprile 2011
La Rete dei Comunisti dalla data della sua costituzione, nel 1998 ha scelto di non formalizzare il modello di organizzazione concretamente funzionante cosciente dei propri limiti soggettivi qualitativi e quantitativi, basando le ragioni della proprie esistenza sui contenuti e sulla funzione generale che si voleva svolgere nel contesto a cavallo del passaggio di secolo.
La tenuta dell’organizzazione è stata garantita dalla costruzione processuale di una identità collettiva ed il collante è stato il “patto politico” tra compagni che condividevano un punto di vista generale a partire dalla riaffermazione della indipendenza politica del movimento di classe e dei comunisti. Questi elementi strategici assieme al continuo consolidamento e crescita del rapporto di massa sociale e politico nelle sue molteplici forme hanno permesso una omogeneità costruita sul confronto interno che ha permesso il mantenimento della prospettiva generale.
Questa “forma informale” di organizzazione ha permesso nell’ultimo decennio di affrontare le varie fasi che hanno caratterizzato il conflitto sociale e politico nel paese ed il confronto con le altre ipotesi politiche, spesso in una nostra condizione di relativa dimensione organizzativa. Oggi, di fronte alle possibilità che produce lo sviluppo delle contraddizioni e la richiesta di organizzazione che viene dalla crisi delle formazioni comuniste, riteniamo sia necessario ipotizzare e sperimentare ipotesi organizzative più avanzate di quelle praticate da noi in questi anni.
Non si tratta, ora, di costituire un nuovo partito da aggiungere ad altri, ma di intraprendere un processo di organizzazione dei comunisti che sappia essere strumento politico effettivo ma che non si chiuda in un modello definitivamente confezionato ed impermeabile alle evoluzioni del rapporto con le altre strutture che si collocano nella nostra stessa prospettiva. In questo senso ha ancora vigenza il “patto politico” che ha permesso la tenuta della RdC in anni certamente complessi e vogliamo lasciare il carattere a rete delle relazioni con altre esperienze comuniste coscienti di essere dentro un processo i ricomposizione i cui esiti sono ancora da definire.
La scelta di essere organizzazione di militanti con funzioni di massa e la disillusione prodotta da innumerevoli esperienze negative fatte dentro e fuori i partiti, ci spinge a definire due piani di relazione organizzata, quella dei militanti e quella degli attivisti. I militanti sono coloro i quali intendono non solo aderire al progetto ma assumere responsabilità soggettive nelle strutture e nella attività dell’organizzazione. Impegni individuali che devono avere a riferimento la discussione e le decisioni collettivamente prese sia nelle strutture di direzione che di lavoro di cui la RdC si fornisce. L’importanza del collettivo non risiede solo nella necessità di affrontare adeguatamente i complessi problemi che intendiamo affrontare ma anche essere una controtendenza alle derive individualiste, leaderistiche e competitive che si sono ampiamente radicate nella cultura politica della sinistra e dei comunisti.
Attivista è chi, pur condividendo il progetto politico, non intende impegnarsi con incarichi di responsabilità nelle strutture. L’obbligo che si chiede è quello della partecipazione attiva al dibattito politico delle strutture di appartenenza ed alle iniziative politiche dell’organizzazione. Vanno naturalmente sollecitate e costruite tutte quelle forme di collaborazione organizzata praticabili in base alle esigenze degli attivisti. La condizione di attivista ha però un’altra funzione da svolgere in quanto il rapporto tra attivisti e militanti è dinamico. La relazione che si stabilisce è anche un momento di reciproca verifica, sulla condivisione delle scelte e dalla pratica politica, funzionale ad un rafforzamento del rapporto da militanti tramite l’assunzione di responsabilità nelle strutture, naturalmente se è il risultato di una verifica positiva. D’altra parte questa elasticità della relazione politica interna permette anche di tornare in modo non traumatico su scelte d’organizzazione già fatte ma che possono mostrare difficoltà politiche o individuali nello sviluppo della attività organizzata.
L’adesione alla Rete dei Comunisti avviene tramite rilascio della tessera individuale in cui vengono definiti i rispettivi ambiti di dibattito e di organizzazione; per gli attivisti sono l’Assemblea Nazionale annuale e gli attivi locali, per i militanti, inoltre, sono il Coordinamento Nazionale e la Segreteria.
La Rete dei Comunisti ha deciso di dotarsi di un responsabile d’organizzazione che svolga anche una funzione di coordinatore sulla formazione che verrà effettuata tramite l’associazione “Politica e Classe”.
L’ARTICOLATO
1) Assemblea Nazionale. La Rete dei Comunisti convoca tutti gli anni la propria Assemblea Nazionale con tutti i suoi aderenti, militanti, attivisti e i rappresentanti delle organizzazioni che hanno stretto “patti federativi” con la nostra Organizzazione, per analizzare la situazione politica nazionale ed internazionale, le scelte politiche fatte nell’anno trascorso, per progettare l’attività dell’organizzazione per l’anno successivo e per verificare nella pratica il funzionamento delle strutture dell’organizzazione, infine per rafforzare il percorso di formazione politica collettiva.
2) Coordinamento Nazionale. Il Coordinamento Nazionale è l’Attivo Nazionale dei militanti dell’Organizzazione, è la struttura di direzione che deve attuare le scelte fatte dalla Assemblea Nazionale, verificare l’attività complessiva delle strutture nazionali e territoriali. Al Coordinamento partecipano coloro i quali hanno incarichi di responsabilità nella direzione e nella gestione delle strutture di lavoro nazionali, settoriali e di quelle territoriali. Alla attività del Coordinamento Nazionale partecipano di diritto i rappresentanti delle Organizzazioni Federate nella misura decisa nei patti federativi reciprocamente sottoscritti.
3) Segreteria. La Segreteria è la struttura di gestione dell’attività complessiva dell’Organizzazione. La Segreteria deve attuare le scelte politiche decise dal Coordinamento Nazionale e verificarle a tutti i livelli necessari; deve, inoltre, promuovere il dibattito interno alle strutture di lavoro e di intervento e la formazione politica coinvolgendo i militanti ed gli attivisti dell’organizzazione.
4) I livelli locali. Per i livelli locali si devono intendere le strutturazioni provinciali e regionali come ambiti di gestione e coordinamento della attività della Rete dei Comunisti. La strutturazione della direzione di questi livelli devono fare riferimento a quelle nazionali con la formazione di coordinamento e segreteria locale, composti dai quadri militanti, e con l’attivo generale come ambito formale di dibattito, confronto politico e organizzazione anche per gli attivisti dell’organizzazione.
5) Patti Federativi. Possono essere ipotizzati patti federativi con strutture politiche e settoriali, nazionali e locali che prevedano la partecipazione di queste al Coordinamento Nazionale o nelle strutture di direzione dei livelli locali previsti. Può essere prevista, se necessaria, la reciprocità della partecipazione alle strutture di direzione con le organizzazioni federate.
6) Le adesioni. La Rete dei Comunisti ha scelto di strutturarsi come organizzazione di quadri con funzione di massa ed è dunque necessario definire due livelli di partecipazione alla sua attività complessiva. La prima, e più larga, è quella degli attivisti cioè per chi condivide il nostro punto di vista generale, lo sostiene e partecipa alla attività politica ma che non ha un impegno e responsabilità dirette nella gestione dell’organizzazione. Gli attivisti partecipano alla definizione delle scelte politiche generali e locali come membri della Assemblea Nazionale e degli Attivi Territoriali. Chi è impegnato in modo militante nel lavoro dell’organizzazione è membro del Coordinamento Nazionale e partecipa alla gestione della vita dell’Organizzazione con incarichi e responsabilità conseguenti. Il Coordinamento Nazionale esprime al suo interno una Segreteria.
L’adesione è individuale ed è inizialmente in qualità di Attivista. L’Organizzazione deve operare affinché gli attivisti maturino la necessità di assumersi maggiori responsabilità e divenire militanti a pieno titolo, questo passaggio ha bisogno di un periodo di reciproca verifica per poter fare una scelte di impegno pienamente cosciente. Il periodo può essere orientativamente di un anno con le eventuali eccezioni che vanno valutate dalle strutture locali dell’Organizzazione.
Rete dei Comunisti
http://www.contropiano.org
Elezioni in Germania, bene Spd Verdi e Linke
Brema, votano i minorenni Giù la Merkel, i Verdi al 23% L’esultanza di Karoline Linnert
candidata dei Verdi
BERLINO – Disfatta per il partito della cancelliera Angela Merkel e per i suoi alleati liberali alle prime elezioni in uno Stato in Germania in cui sono ammessi al voto anche i minorenni, cioè i giovani dai 16 anni in su. E’accaduto oggi a Brema, antica, splendida città-Stato anseatica del Nord tedesco. Nel più piccolo dei sedici Bundeslaender dellaRepubblica federale, la Cdu della signora Merkel crolla al terzo posto, sorpassata non solo dalla socialdemocrazia (Spd) che governa la città-Stato dall’instaurazione della democrazia dopo il ’45 grazie ai vincitori-occupanti britannici e americani, ma anche dai Verdi. I Gruenen, gli ecologisti tedeschi, si rivelano sempre più la nuova forza trainante delle opposizioni di sinistra, e a lungo termine, a livello nazionale, ipotesi di un loro eventuale futuro accordo di coalizione con la Merkel non appaiono più impossibili.
Ecco come ha votato il primo Stato della Repubblica federale che si è affidato anche al “responso dei ragazzini”, secondo le proiezioni di solito veloci e attendibili effettuate dalle tv pubbliche Ard e Zdf dopo la chiusura dei seggi, alle 18 locali e italiane: la Spd del popolare governatore Jens Boehrnsen, un’incarnazione dell’anima moderna e migliorista della sinistra, resta primo partito con un lusinghiero 38 per cento. I Verdi volano al 23 per cento e diventano quindi la seconda forza politica locale. Sorpassano oltre misura la Cdu della Merkel che precipita al 21,5 per cento. Peggio ancora va per i liberali (Fdp) del ministro
degli Esteri Guido Westerwelle, alleati sempre più deboli per la cancelliera: vanno sotto il 5 per cento, quindi non saranno più rappresentati nel Parlamento dello Stato. La loro corsa al declino appare ormai inarrestabile. Buono invece il risultato della Linke, la sinistra radicale composta da ex comunisti dell’est e transfughi da sinistra della Spd: va attorno al 6,5 per cento, quindi sicura della rappresentanza, e conferma il suo trend di prendere piede anche all’Ovest della Repubblica federale.
Per il governo federale, è un nuovo segnale di insoddisfazione e malcontento, nonostante l’economia tedesca sia la più forte (e quella dalla crescita più veloce) in tutta l’Unione europea, e nonostante la Merkel abbia voluto e saputo salvare il welfare tedesco. Il test della piccola Brema (circa 550 mila elettori) era ritenuto interessante soprattutto perché è stata la prima volta che i minorenni, dai 16 anni in su, sono stati chiamati a votare. L’idea era di avvicinare i giovani alla democrazia e risvegliare loro l’interesse nella politica. Ottima idea, ma per la Merkel e il suo partito non ha pagato. Città universitaria, sede di cantieri e antiche imprese portuali, location di importanti linee di montaggio Mercedes e di altre grandi aziende, grande magnete turistico ma alta disoccupazione, Brema col voto-sfida dei ragazzini ha reagito al governo federale quasi come con una versione soft della protesta spagnola, pur essendo lontana anni luce dalla Puerta del Sol di Madrid.
Replica
Le tue parole Simone,rafforzano l’ipotesi che avevo sempre avuto.
Cioe’ nessuna questione di “alleanza di governo” o altro!
La questione e’ una sola e forse dovremo avere il coraggio di dirlo alla luce del sole!
La proposta di alleanza del Pd si basa su una pregiudiziale.
Il non presentarsi con il simbolo “Falce e Martello”.
Questo e’ il punto …. in coalizione si’ ma senza il simbolo,presentatevi con Sel,i Verdi,l’Idv chi diavolo volete ma scordatevi la “Falce e Martello”.
E’ una questione da far tremare i polsi ma e’ cosi.
Sara’ dura scegliere …. cosi’ a caldo mi viene da pensare
“NO MAI!Non rinuncio ai miei simboli!” …. ma la prospettiva poi e’ solo e solamente la scomparsa!
e togliamola questa falce e martello! altrimenti scompariamo
dobbiamo avere un po’ di sano realismo: stiamo dentro la politica e la discussione che c’è a sinistra, non possiamo essere sempre gli ultimi a capire le cose! comunisti siamo dentro, e lo rimarremo sempre!
Dice Marco:comunisti siamo dentro, e lo rimarremo sempre!
Anna con piu’ franchezza:e togliamola questa falce e martello! altrimenti scompariamo
Fausto Sorini(ex-Prc ora Pdci) “accusa” Grassi di questo:
“E’ vero o non è vero, come ormai dicono in molti, citando colloqui con te e con altri dirigenti di Essere Comunisti (e come si è letto anche su questo blog) che una parte del vostro gruppo dirigente, più che ad partito comunista unificato, punta alla costruzione di una componente cultural-politica comunista all’interno di una nuova Linke in salsa italiana, magari in un’unica formazione con SEL? E che questo progetto non può essere oggi da voi esplicitato perchè verrebbe respinto dalla stragrande maggioranza dei militanti di Essere Comunisti?”
Non la faccio tanto lunga perche’ sarebbe inutile,ma di fronte ad un prospettiva di costruzione di un grande “Partito di Sinistra” da piu’ del 10%(che avrebbe “de facto” un suo profilo di autonomia-concorente dal Pd)che nasca da Sel(Vendola ha sempre parlato di Sel come una partita e non come un partito e che deve considerarsi un seme),da i “realisti” Prc,da pezzi di movimento,dalle personalita’ piu’ di sinistra ancora nel Pd,sostenuto da pezzi di Cgil e tanto altro,con una componente/area,la vogliamo chiamare anche corrente comunista(insomma mi auguro l’espressione che usa Sorini “…. componente cultural-politica comunista all’interno di una nuova Linke in salsa italiana” si concretizzi!)
Io credo che ad esempio questa “costituente” possa essere sostenuta e rilanciata partendo dall’appoggio alle primarie per Vendola.
E dopo tutti insieme alle elezioni e poi via ad un gran Partito.
La prospettiva che ci offre Ferrero e’ scandalosamente fallimentare!
Hai ragione Luca, sono d’accordo con te, ma noi secodno me dobbiamo mantenere l’ambizione di tenere insieme i due progetti: l’unità dei due partiti comunisti e la costruzione di una sinistra più grande. Poi se le condizioni che si creeranno ci porteranno a pensare ad un unico partito della sinistra questo non possiamo noi oggi prevederlo… però continuiamo e non dimentichiamoci del progetto di ricompattare i due partiti comunisti!
Caro Simone,ti ringrazio per la risposta.
Pero’ insisto,parlare della coalizione di un polo “Sel-Idv-Fds” che momentaneamente rompe con il Pd per “pesarsi” e spaventare il Pd credo sia letteralmente fuori dalle cose possibili.
La road map di Sel e Vendola e’ totalmente diversa.
Coalizione Pd-Sel-Idv e primarie.
Anzi in caso(ovviamente lo speriamo tutti!di vittoria di Pisapia e Zedda)partira’ una offensiva pazzesca da parte di Nichi!
Quello che abbiamo visto l’estate scorsa,con un Vendola che impazzava da una festa di partito all’altro,sparigliando tutto e tutti,potrebbe essere solo l’antipasto …. pensate ad una festa a Milano con Pisapia e Vendola,beh l’epicentro della politica del csx sarebbe quello!
Per me su questo punto c’e’ davvero un abisso!
Ripeto proporre e sperare in Sel e Idv che rompono anche momentaneamente con il Pd e’ come se a Napoli sperassero che Messi vada a Napoli perche’ li’ ha giocato Maradona!
Noi non possiamo riporre la nostra esistenza di partito sulle scelte degli altri!
Perche’ come dice Grassi
“Perché se invece di andare in porto una nostra proposta di alleanza con SEL e IDV va in porto, come a Torino, un’alleanza di centrosinistra tra PD, IDV e SEL che si compatta su una proposta di governo con noi fuori, alle elezioni politiche rischiamo di non superare l’1% e di scomparire.”
Allora mi piacerebbe chiedere 2 cose molto semplici
1)Visto che Vendola e Di Pietro hanno detto in tante interviste post-voto
“Ora si faccia la coalzione Pd-Idv-Sel”,quale e’ la nostra strategia?
Continuare a ripetere …”facciamo un polo Sel-Idv-Fds”?
2)Se come appare ovvio,c’e’ la coalizione Pd-Idv-Sel e il “Fronte” e’ respinto per ovvie ragione elementari … quale sara’ la nostra scelta?
Andiamo da soli con Sc e Csp?Candidiamo a premier Cremaschi e prendiamo l’1,3%?
O cosa?
Caro Luca,
secondo me noi dobbiamo avere la nostra linea, continuare (moltiplicare) l’offensiva unitaria e dimostrare nei fatti che Vendola e Di Pietro sbagliano. Ma per essere credibili dobbiamo essere determinati, con una linea non ondivaga, e determinanti, con un consenso non residuale.
So che è difficile, ma dobbiamo provarci. Perché le altre due alternative (togliere la falce e martello e accettare l’idea del governo e dell’internità al centrosinistra; andare da soli con il Pcl contro il mondo) sono, per ragioni speculari, totalmente inaccettabili.
Un abbraccio,
Simone
Grazie Compagno Simone. Articolo pubblicato sul nostro sito Officina21
Marco Piattelli
I responsabili nazionali Enti locali di PD, IDV e SEL, considerati gli ottimi risultati ottenuti al primo turno delle amministrative dai candidati del centrosinistra, comunicano di aver raggiunto un’intesa volta a ricomporre le differenziazioni nelle poche realtà locali in cui non era ancora stato trovato un accordo, per contribuire così al rafforzamento della proposta su tutto il territorio.
Una proposta capace di comprendere il disagio sociale diffuso e di interpretare la speranza di chi crede che sia possibile costruire un’Italia diversa, partendo dai territori.
Il centrosinistra vince sviluppando dialogo e aperture a tutte le forze di opposizione a Berlusconi e scegliendo i candidati più forti con programmi chiari e condivisi.
L’opposizione, determinata a risolvere i problemi reali dei cittadini e a dare delle risposte concrete in ogni singola realtà territoriale, si sta dimostrando così capace di costruire un’alternativa credibile di governo. Le prossime giornate saranno tutte dedicate al sostegno dei nostri candidati affinché i risultati del primo turno possano confermarsi anche ai ballottaggi.
Lo scrivono in una nota congiunta Davide Zoggia, Ignazio Messina e Paolo Cento
Avete visto il blog di Vendola di oggi? Chiede una coalizione Pd-SEL-IDV!!! Della Federazione della Sinistra non c’è nemmeno l’ombra! È inutile che continuiamo a rincorrere Vendola quando il suo progetto è completamente diverso….
Ho ascoltato ieri all’Alpheus sia Oggionni sia Burgio: sono castelli in aria perché Giordano l’ha detto chiaramente che l’obiettivo è giocare la partita sul tavolo del Pd, non chiudersi nel recinto di Rifondazione e della federazione!!
Facciamo un po’ di chiarezza.
Il risultato della FdS nei comuni capoluogo e’ del 2,6%.
Ma e’ un conteggio dove non vengono contati i comuni dove la FdS non si nemmeno presentata(e perche’?e’ un dato di debolezza che eccome se va conteggiato!)e cosi’ facendo il dato della FdS sotto il 2,5%.
Alle scorse europee in quei comuni eravamo al 3.8%(il dato nazionale era 3,4%),cio’ significa che perdiamo tanto rispetto al 09 e azzardando una proizione a livello nazionale potremo dire che stiamo al 2,3%.
3,8% media comuni- 3,4% dato nazionale Europee 09
2,6% media comuni- 2,3% proizioni in base ai dati 2011
Il dato di Sel e’ vero che non porta a casa l’8%(ma quelli erano sondaggi nazionali)pero’ ha un dato nei comuni capoluogo del 4,75% che lo fa’ essere il 2 partito del csx e il 4 d’Italia superando l’Udc.
e a questi dati,che disegnano uno scenario oggettivamente meno ottimistico di quello che abbiamo pensato a caldo,dobbiamo aggiungere l’aspetto piu’ importante di queste elezioni.
Se e’ vero che la FdS non sparisce come consenso e rimaniano fermi al dato delle regionali e’ anche vero che la FdS esce con le ossa rotte con il dato della rappresentanza istituzionale.
In 12 comuni capoluogo su 29(oltre il 40% delle citta’)la FdS letteralmente sparisce dai consigli e nei restanti le cose anche dopo il 2 turno non andranno bene.
Su questo aspetto,dei seggi,ho il sentore che la dirigenza abbia volutamente taciuto/omesso.Il danno e’ irreparabile!
Ma c’e’ un ultimo aspetto che deve essere la stella polare delle prossime discussioni e cito Grassi.
” …. dobbiamo lanciare subito una proposta unitaria a SEL e IDV.
Perché se invece di andare in porto una nostra proposta di alleanza con SEL e IDV va in porto, come a Torino, un’alleanza di centrosinistra tra PD, IDV e SEL che si compatta su una proposta di governo con noi fuori, alle elezioni politiche rischiamo di non superare l’1% e di scomparire.”
Bene Grassi ci informa che se Pd-Sel-Idv fanno una coalizione la FdS e’ fuori,prende l% e spariamo.
Mi preme informare Grassi e Oggionni che ha possibilita’ di comunicare con lui che Pd-Sel-Idv formano gia’ sostanzialmente una coalizione.
E che a Vendola e Di Pietro di formare una coalizione con la FdS non interessa minimamente.
E quindi seguendo paripari il ragionamento di Grassi(che e’ il n.2 del Prc)siamo destinati a sparire e a prendere l’1%.
Ultima annotazione,il cosidetto “Fronte Democratico”,asso nella manica di Ferrero per riportare in parlamento il Prc.
Cioe’ quell’accordo(la faccio breve tanto tutti sappiamo di cosa parlo) che prevederebbe la possibilita’ da parte del Prc di potere votare anche contro il csx.Un atto di generosita’ da parte di Letta e Fioroni encomiabile!!!
Sempre qui’ rispondo,parafrasando un leader della Fds(beh ha il 10% nel consiglio nazionale),cioe’ Cesare Salvi che dice:
“Ai miei compagni di Fds però dico,il tema del prossimo governo è nei fatti. Vogliamo guadagnare qualche punto programmatico o restiamo prigionieri dell’illusione delle mani libere?”
E chi ha un altro 10% della Fds,cioe’ Patta cosa dice?
“Come farà la Federazione della Sinistra a spiegare ai lavoratori che non garantirà la durata di un nuovo governo di centrosinistra?
Si dice che la Federazione della Sinistra non vuole compromessi col Pd proprio «in nome dei lavoratori».Come se per i lavoratori non sia una realtà dover fare compromessi quotidiani e direttamente con il padrone. Cos’è il contratto di lavoro se non un compromesso, e cos’è la stessa natura del lavoro subordinato se non una mediazione? Ho l’impressione che le posizioni «anticompromissorie» non siano l’espressione di una combattività operaia ma figlie di una piccola borghesia che vive la politica come un confronto formale tra formule e non come un atto alto della lotta di classe finalizzato a migliorare la condizione dei lavoratori e cambiare la società esistente.Se la Federazione della Sinistra non si pone l’obiettivo del governo come può essere credibile!”
Forse la risposta a Ferrero.Grassi,Salvi e Patta la da’ lo stesso Grassi ….. “alle elezioni politiche rischiamo di non superare l’1% e di scomparire.”
Secondo me Luca ha ragione, il dato delle comunali è veramente basso (è un altro arretramento) e, proiettato sulle poltiiche, verrebbe fuori una cosa simile a quella delle comunali più che al dato delle provinciali.
Ed è anche vero che non si può giudicare il dato di Sel rispetto ai sondaggi ma rispetto ai voti reali…. E ne ha guadagnati un botto!
Caro Luca,
hai ragione a chiedere maggiore sobrietà nel giudizio sul voto, che dimostra che scontiamo ancora numerose difficoltà (in 4 Comuni capoluogo non abbiamo nemmeno presentato la lista) e che in alcune realtà non avanziamo (con la conseguente perdita di postazioni istituzionali, anche se non nella misura che tu indichi: bisogna aspettare i ballottaggi). Tuttavia l’incoraggiamento ci deriva dal fatto che, al contrario dei sondaggi e del sentire comune che circolava tra noi, portiamo a casa la pelle e possiamo, con questo dato (a cui va sommato il 4.1% delle provinciali), tornare a respirare e a fare politica.
E hai ragione anche nel dire che il dato di Sel non può essere, se vogliamo essere onesti, paragonato con quello presunto ma con l’ultimo loro confrontabile. E questo confronto ci dice che Sel, pur non sfondando, raggiunge percentuali significative.
Arrivo al punto che tu definisci della “stella polare”: il tema della proposta unitaria.
Noi pensiamo (penso di interpretare anche il pensiero di Grassi, che però legge e quindi può intervenire qualora dicessi cose che lui non condivide) che vada riaffermata con forza un’offensiva unitaria a sinistra, che parta dal coinvolgimento delle forze a sinistra del Pd per la costruzione di un polo della sinistra e che, una volta create le condizioni, dialoghi con il Pd e provi a sottrarlo dall’abbraccio mortale con Casini e Fini.
Questo è il nostro progetto politico ed è del tutto evidente che, ad oggi, questo non è il progetto di Vendola (dico Vendola e non Sel perché in Sel il dibattito è aperto, e non sono pochi i compagni che la pensano diversamente da Nichi).
Quanto ai nostri destini: molto rileva non soltanto la tua collocazione, ma anche il tuo atteggiamento. Quello che va evitato è un atteggiamento minoritario che ci conduce all’isolamento, è la presunzione dell’autosufficienza. Anche perché a sinistra del Pd c’è uno spazio politico: noi ci auguriamo di poterlo occupare con Sel e gli altri, ma se questi dovessero fare una scelta diversa (di internità al Pd) quello spazio rimarrebbe comunque da occupare.
Infine, il governo e il Fronte Democratico: nell’ultima direzione Ferrero ha detto che, dal suo punto di vista, non ci sono le condizioni per un accordo di governo ma che al contempo non si assumerebbe più la responsabilità di far mancare il suo sostegno al governo qualora il Fronte democratico dovesse vincere le elezioni.
Io penso che si debba iniziare a discutere di contenuti concreti e che si debbano scoprire un po’ le carte, incalzando il Partito democratico. Perché questa riflessione astratta e un po’ ideologica sul governo non ci porta da nessuna parte (se non a dividerci per schieramenti pregiudiziali ben prima che si ponga concretamente il problema).
Un caro saluto e grazie per l’attenzione,
Simone Oggionni
Una scelta sbagliata. Prima analisi del voto a Napoli
mercoledì 18 maggio 2011 | Peppe De Cristofaro | 74 commenti
Il dato delle elezioni napoletane offre numerosi spunti e sufficienti motivi per poter parlare di un errore politico grave compiuto da Sinistra Ecologia e Libertà. Tenterò di analizzarlo per punti, anche per semplificarne la lettura.
1) Il primo dato che balza agli occhi è che dopo diversi anni di forte avanzamento del centro destra, questa volta a Napoli (e in buona parte del resto della provincia) si inverte la tendenza. Lettieri, candidato di Berlusconi, si ferma infatti al 38,5 % (circa 180.000 voti), al pari delle liste che lo sostengono (176.000), molto lontano dai dati che solo un anno fa avevano visto anche nel territorio del comune di Napoli la affermazione di Stefano Caldoro (49,5%, pari a 210.000 voti), candidato alla presidenza della regione. Questo dato si spiega per due ragioni. La prima è la divisione delle forze del centro destra, un anno fa unite e insieme al governo della regione e della provincia. Il candidato del terzo polo, Pasquino, ottiene infatti un significativo 9,7 (45.500), peraltro oggi difficilmente sommabile ai voti di Lettieri. La seconda ragione è l’arretramento del Pdl, non compensato dalle varie liste civiche in campo, e probabilmente attribuibile a differenti fattori tra cui l’incapacità di gestire la crisi dei rifiuti, per anni motivo di sconfitta elettorale per il centrosinistra e forse oggi per la prima volta anche per il centrodestra. Il Pdl cala infatti in un anno dal 33,8 (135.000 voti) al 23,8 (97.000).
Pur essendo non perfettamente comparabili dati relativi a elezioni differenti come quelle comunali e quelle regionali, ma in assenza di altri possibili raffronti (alle comunali di 5 anni fa molti degli attuali partiti nemmeno esistevano), questi numeri parlano, comunque, di una vera, prima, inversione di tendenza, dopo una fase durata tre anni in cui il centrodestra ha vinto tutte le elezioni che si sono tenute (regionali, provinciali di Napoli, oltre che quasi tutti i comuni della provincia andati al voto).
2) Il secondo dato è la sconfitta del Pd e della coalizione che ha sostenuto il prefetto Morcone. Sconfitta attribuibile solo in minima parte al candidato, certamente poco conosciuto ma anche non responsabile delle difficoltà di questi anni. Il Pd perde in un anno oltre trentamila voti (da 101.000 a 68.000, poco meno di un terzo del proprio elettorato) e nove punti in percentuali. Sarà necessario interrogarsi sulle cause di questo crollo, ma appare evidente come al giudizio complessivamente negativo dell’elettorato sull’esperienza di governo del centrosinistra a Napoli e in Campania, si sia aggiunto anche un drastico giudizio sulla gestione delle primarie a Napoli.
Sarebbe interessante sapere quanti dei 44.000 cittadini napoletani che parteciparono alle primarie a gennaio e che non hanno mai saputo il risultato definitivo di quella consultazione fanno parte oggi dei trentamila voti persi dal Pd.
Sel, l’altra gamba della coalizione Morcone, non capitalizza questa fuoriuscita di voti. Aumenta solo marginalmente la propria percentuale e i propri numeri rispetto ad un anno fa (da 14.000 a 16.000, cioè dal 3,5 al 4%), ma il suo voto è prevalentemente sui candidati, e non sul simbolo. Sommando infatti le preferenze dei 48 candidati del nostro partito, scopriamo che molto del nostro voto ha queste caratteristiche. Appare evidente come questa mancata affermazione del voto di opinione (in una elezione invece, come vedremo, profondamente segnata da un elemento del genere) risieda in un clamoroso errore di collocazione del nostro partito e in una evidente frattura con parti consistenti del nostro popolo che hanno giudicata del tutto sbagliata la nostra scelta. E non è stato sufficiente per ricomporre questa frattura, evidentemente, nemmeno il fatto che questa scelta sia stata compiuta da un referendum tra gli iscritti e non solo nel gruppo dirigente, che pure dovrà, necessariamente, prendere atto fino in fondo della gravità dell’errore.
La difficoltà di suscitare una qualche forma di entusiasmo nell’opinione pubblica, peraltro, si era già potuta vedere in una campagna elettorale difficile e faticosa per tutti, attraversata dall’ennesima “emergenza rifiuti”, che certamente è stata tra le cause di un ulteriore, sensibile aumento dell’astensionismo.
Ancora, sul dato di Sel, è utile una ultima precisazione: nelle contestuali elezioni delle dieci municipalità che compongono il comune di Napoli, nelle quali il centrosinistra si è presentato unito alle elezioni, anche grazie al nostro lavoro di rimettere insieme la coalizione, il dato del nostro partito è molto migliore: da 16.283 voti (3,97%) a 26.528 voti (circa il 6,5%), con un incremento generalizzato ed uniforme in tutti i municipi, e con un incremento particolare proprio in quei due municipi dove è più forte storicamente il voto di opinione, e dove, non a caso, si era registrata la massima affermazione alle primarie del nostro candidato Libero Mancuso, cioè Chiaia (da 1553 voti delle comunali ai 2781 delle municipali, cioè dal 4% all’8%) e Vomero (da 2867 voti delle comunali ai 4878 delle municipali, cioè dal 5,3% all’8,7%) . Come se il nostro elettorato, e forse molti degli stessi che ci hanno premiati alle primarie, ci avessero voluto dire nella maniera più chiara possibile di aver considerato sbagliata la scelta dell’alleanza con il Pd e Morcone invece che con De Magistris. Barrando due schede, una dopo l’altra, in maniera molto diversa.
Infine, proprio sulle municipalità va segnalato il successo del nostro compagno Mario Coppeto, presidente uscente e netto vincitore al Vomero-Arenella (oltre il 50%), a dimostrazione di come una pratica di buon governo trovi sempre un eccellente riscontro elettorale.
3) Il terzo dato, ma non certo per ordine di importanza, è il successo netto di Luigi De Magistris e della coalizione che lo ha sostenuto.
Partiamo anche in questo caso dai numeri: De Magistris ottiene 128.00 voti (27,5%) a fronte dei “soli” 68.540 di Idv, Federazione della sinistra e delle due liste civiche che lo sostenevano.
L’impressionante dato degli oltre 35.000 voti del solo candidato sindaco, più (per differenza) i probabili circa 25.000 voti disgiunti che ottiene, parlano di una clamorosa novità, segnata da un voto di opinione assolutamente inedito, con queste dimensioni, in una tornata amministrativa. Questa tendenza, confermata dai molti voti solo sul simbolo e non ai candidati alle liste della coalizione De Magistris, sfata una serie di argomenti che pure avevano caratterizzato la campagna elettorale. In particolare l’idea che per battere il candidato del centrodestra l’elettorato del centrosinistra scegliesse una opzione più moderata, è stata letteralmente travolta: De Magistris ha vinto perché la sua candidatura, la sua campagna elettorale, sono state più innovative, più capaci di suscitare un’emozione e di essere in sintonia con quel vento di cambiamento che si è visto oggi a Milano come un anno fa si era visto in Puglia.
Credo che proprio su questo terreno bisognerà riconoscere l’errore più grande fatto dal nostro partito nella scelta di non sostenere De Magistris.
Del resto, questa voglia di cambiamento che ha segnato profondamente questa tornata amministrativa, da Cagliari fino al nord del paese, come avrebbe potuto non attraversare anche la città che più di qualunque altra è stata caratterizzata, in questi anni, dalle maggiori emergenze e dal maggiore disagio per i cittadini?
Come avrebbe potuto cioè una situazione eccezionale come quella che si è determinata a Napoli, non provocare eventi altrettanto eccezionali, cioè il terremoto politico che è uscito dalle urne?
E, ancora, come avrebbe potuto un giudizio profondamente critico sull’esperienza di governo di questi anni (a giudizio di chi scrive eccessivamente ingeneroso, ma ormai totalmente consolidato in larghissima parte del popolo di centrosinistra) non tradursi in un voto come quello di domenica e lunedì?
Farsi queste domande oggi, ad urne aperte, non è difficile. E’ grave, invece, che il nostro partito non se le sia fatte nei mesi scorsi.
Che non sia stato in sintonia con questo vento di cambiamento. E che non abbia saputo osservare tutto ciò, a partire dal suo gruppo dirigente, che dovrà, tutto, fare una profonda riflessione su un così grande errore politico, e fare i conti fino in fondo con questo.
Ma questa riflessione, aperta a tutte le possibilità, la faremo un minuto dopo il ballottaggio. E’ nostro dovere, fino a quel momento, sostenere fino in fondo Luigi De Magistris per battere le destre di Cosentino, Cesaro e Lettieri, indipendentemente da qualunque accordo tecnico o apparentamento. Sostenerlo senza se e senza ma.
Sosterremo il candidato del centrosinistra uscito dalle urne dicendo agli elettori la verità, che è sempre rivoluzionaria. Cioè che abbiamo sbagliato, e che non vogliamo continuare a farlo.
Peppe De Cristofaro
Sel ammette che a Napoli ha sbagliato su tutta la linea! Bravo De Cristofaro e complimenti per il coraggio!
COMUNICATO STAMPA
DELLA SEGRETERIA PROVINCIALE DEL PRC DI TORINO
La Segreteria provinciale del PRC di Torino, nell’ambito di una tornata amministrativa complessivamente favorevole (pur con luci e ombre, ed evidenti difficoltà), valuta i risultati ottenuti nell’elezioni comunali e circoscrizionali torinesi una gravissima sconfitta.
La Federazione della Sinistra non ha saputo essere un argine credibile alla riproposizione di un assetto moderato e filopadronale del governo della Città.
Questo risultato richiede a tutto il partito, a partire dal suo gruppo dirigente provinciale, un surplus di riflessione analitica sulla composizione sociale torinese, sulle stato dei rapporti fra le classi, sul comportamento politico di frazioni e ceti sociali, sulle dinamiche delle classi e gruppi dirigenti politici e sindacali.
Questo non potrà che essere un lavoro di lunga lena, che non si risolve nella sola analisi del voto e delle sue dinamiche (che pure impietosamente va fatta) e, soprattutto, non si esaurisce nel breve giro di una o due riunioni dei gruppi dirigenti. Necessita e va accompagnato da una riflessione sullo stato dell’organizzazione, sulle sue modifiche oramai non più rinviabili.
Alla fine di questo lavoro vedremo se saremo stati in grado di proporre un gruppo dirigente all’altezza di quei compiti e che abbia un progetto di medio periodo sul quale lavorare.
Il prossimo congresso del partito deve essere una buona occasione (non l’unica) per questo lavoro e per queste attività.
Abbiamo una prospettiva di tre anni, senza scadenze elettorali: proviamo a usarli sapientemente e con umiltà.
Per questa ragione noi sottoscritti e sottoscritte componenti la Segreteria provinciale rimettiamo il mandato nelle mani del Segretario provinciale, al fine dell’avvio di questo percorso di verifica davanti al prossimo Comitato Politico Federale e, successivamente, nel corso del Congresso, garantendo in ogni caso la funzionalità del partito già da oggi impegnato nella campagna referendaria.
Ringraziamo tutti i compagni e tutte le compagne del Partito della Rifondazione Comunista, dei Comunisti Italiani, di Lavoro e Solidarietà, di Sinistra Critica; ringraziamo tutti i compagni e tutte le compagne canditati e candidate in Comune e nelle Circoscrizioni, iscritti e iscritte, indipendenti, che hanno condiviso generosamente con noi questa esperienza.
Rivolgiamo un ringraziamento particolare al candidato Sindaco compagno Juri Bossuto, e al gruppo di compagni e compagne che hanno costituito il suo collettivo di lavoro mettendosi al servizio del partito in una competizione che sapevamo impari sin dall’inizio.
Ringraziamo infine quegli oltre seimila elettori ed elettrici che ci hanno votato: il nostro impegno nei loro confronti è quello di utilizzare questa nostra sconfitta e questa loro disponibilità come fondamenta di una nuova e più solida esperienza politica.
Torino, 17 maggio 2011
Ma forse non ho capito bene io: ma perché il segretario non si dimette e si dimette solo la segreteria??
Non è il segretario il primo responsabile della sconfitta?
18 maggio 2011
Ora basta scelte innaturali!
Nichi Vendola sostiene che “era innaturale la divisione del centrosinistra a Napoli”.
Ha perfettamente ragione!
Ma dovrebbe chiedersi: chi ha voluto questa divisione?
La risposta è una sola: l’ha voluta il PD!
Che dopo essere stato il maggiore responsabile del “disastro napoletano” di questi ultimi anni, dopo aver visto la diaspora di un numero enorme di suoi consiglieri comunali verso destra, dopo aver determinato la vergogna delle primarie, ha avuto ancora la pretesa di essere il partito che indicasse il candidato a sindaco di Napoli per lo schieramento di centrosinistra.
E’ stato naturale che ci sia stato chi si è opposto ad una simile assurda pretesa.
Da qui è venuta la divisione del centrosinistra. Non da altro.
E, una volta che si era determinata la divisione, Vendola e SEL si sono trovati a dover fare una scelta. E hanno fatto la scelta sbagliata.
Invece di scegliere il cambiamento, l’unica scelta tra le due che significava il cambiamento, cioè quella a favore di De Magistris (l’altra, quella a favore di Morcone, rappresentava, al di là delle caratteristiche della persona, una scelta di oggettiva e sostanziale continuità), ha fatto la scelta sbagliata, una scelta innaturale per SEL.
E, infatti, molti suoi elettori (almeno potenziali) l’hanno sconfessata col voto di domenica e lunedì.
Come adesso lo stesso Vendola è costretto a riconoscere: è stato “un fatto abbastanza naturale”.
Giovanni Lamagna
Ma te ne sei accorto adesso? Vendola sta con il Pd: Vendola è il vecchio, non il nuovo! Dobbiamo costruire qualcosa di diverso e di nuovo e i risultati delle elezioni ci dicono che è possibile, che non siamo morti!!!!
IL RISULTATO DI RIFONDAZIONE COMUNISTA A CINQUEFRONDI E’ STORICO PERCHE’:
1) DIVENTA PRIMO PARTITO DELLA CITTA’ CON IL 30%
2) IL CANDIDATO GIUSEPPE LONGO VIENE ELETTO CONSIGLIERE PROVINCIALE
3) L’ULTIMA VOLTA CHE UN CINQUEFRONDESE ERA STATO ELETTO CONSIGLIERE PROVINCIALE E’ STATO BEN 30 ANNI FA
4) IL PDL CHE CANDIDAVA IL VICESINDACO E CON IL SINDACO IN TESTA A FARE CAMPAGNA ELETTORALE SI FERMA AL 19% (CAPITE BENE LA DIFFERENZA DI PERCENTUALE CHE INVECE C’è TRA PDL E RIFONDAZIONE A LIVELLO NAZIONALE
5) L’UDC CHE CANDIDAVA L’ASSESSORE ALLE POLITICHE SOCIALI SI FERMA ADDIRITTURA AL 7%
6) RIFONDAZIONE DA SOLA CON IL SOLO CANIDATO GIUSEPPE LONGO SUPERA IL PDL E L’UDC INSIEME CHE SCHIERAVANO I DUE AMMINISTRATORI
QUANTO ACCADUTO DIMOSTRA CHE L’IMPEGNO CONTINUO, UNA OPPOSIZIONE PRECISA E PUNTUALE SENZA SCONTI E SENZA PAURE E LE TANTE ATTIVITA’ POLITICHE (DAI MERCATINI EQUOSOLIDALI ALLE LOTTE PER L’ACQUA PUBBLICA PER FARE ALCUNI ESEMPI) SONO STATE PREMIATE DAL POPOLO….E SIGNIFICA CHE IL PROGETTO RINASCITA PER CINQUEFRONDI NATO L’ANNO SCORSO E’ STATA UNA INTUIZIONE LUNGIMIRANTE…
GRAZIE A TUTTI….
IL VENTO FISCHIA ANCORA…
Bravissimi compagni, che il partito sia forte nel Sud e nei piccoli centri è un grande segnale per tutto il Paese! Ripartiamo e rialziamoci a partire da questi straordinari risultati!
il risultato dei comunisti però è deludende, soprattutto in realta come la mia di arezzo.
se non sbaglio alle scorse regionali prendemmo il 3.9, alle europee il
3.7 e questa volta il 4%…
si con i verdi e i com it. se ti sembra un buon risultato……..praticamente spariti anche i verdi.
inoltre ci vuole un simbolo con la falce e martello grande, cosi non va…….i 2 simbolini non funzionano…..vedi che dove c’è ci sono anche piu voti.
Il PRC e la FdS ottengono risultati importanti ed eleggono propri rappresentanti laddove, non proprio come dice Claudio
Grassi, ma come sempre ha sostenuto il nostro Segretario Paolo Ferrero, pur in un confronto duro e serrato a sinistra e con
il centrosinistra si rifugge da un lato il settarismo minoritario (la corsa appresso a Sinistra Critica, a Ferrando, ecc.) e
dall’altro ci si muove ventre a terra nei territori, tra le persone in carne ed ossa rifuggendo logiche consociative e puramente
elettoralistiche. Lo testimoniano bene i risultati di Milano e di Napoli e di tante altre realtà anche del Sud dove pur correndo
da soli abbiamo allacciato relazioni feconde con l’intera società civile e con le realtà giovanili più innovative ed interessanti.
Essenziale (perchè mi pare che in tanti casi il Pdci abbia remato contro oppure si sia alleato senza discutere con il Pd) è un chiarimento nella Federazione “tra comunisti”. L’unità si fa in modo leale e senza sgambetti altrimenti noi faremo un altro
giochetto e rilanciaremo da par nostro il tema dell’unità repubblicana con il resto del centrosinistra. Augurandoci tra 15
giorni un più lusinghiero successo per la sinistra sia a Milano sia a Napoli ribadiamo che: accà nisciuno è fesso!!!!!
Unitari e leali sì nelle alleanze, disponibili a compromessi non deteriori pur di battere la destra e Berlusconi, orgogliose ed orgogliosi di essere comuniste e comunisti: ma non coglioni!
Saluti comunisti.
caro compagno,
grazie per le tue note, che condivido pienamente.
Sarei curioso però di capire perché metti in contraddizione le cose
dette da Grassi e quelle dette da Ferrero. Mi pare, su questo punto,
siano molto in sintonia.
un caro saluto,
Simone Oggionni
Caro Compagno Oggionni a parte il fatto che conosco e stimo, proveniendo dalla
sinistra ingraiana del PCI, sia Claudio sia Bruno, non condivido il fatto che
si continui a parlare e a scazzarsi per aree. Ecco perchè trovo la
contraddizione tra le parole di Ferrero e quelle di
Grassi. Io, invece, parlo da comunista che da molti anni- per fortuna- non si
riconosce più in alcuna appartenenzadi area e se ci volessimo davvero bene e
volessimo recuperare nei territori dove siamo letteralmente scomparsi faremmo
bene a piantarla col mettere avanti ad
ogni nostro discorso le bandierine di appartenenza. Comunque anche a te e di
cuore per il bel lavoro che fai anche tra i GC un abbraccio
fraterno ed un saluto comunista. Tuo Mario Ottavi (fino al 2002 segretario del
Circolo Credito ed assicurazioni di Roma)
Una sola domanda: perché citi Rimini dove noi prendiamo l’1.9 e SEL il 3.5? A me non pare un gran risultato e se anche SEL non ci “schiaccia” è comunque significativo di una scelta politica di alleanza non certo compresa da tutto il nostro elettorato.
(Per chi non lo sapesse a Rimini la FDS sostiene il sindaco PD mentre SEL ha un proprio candidato proprio in dissenso con le scelte di cementificazione fatte negli anni dal PD di Rimini)
Quei casi che ho citato sono realtà in cui – come ho scritto – il rapporto tra noi e Sel “non è il rapporto tra Davide e Golia”. Voglio dire che, al di là delle percentuali che prendiamo, non siamo molto sotto SeL.
Quanto alle scelte elettorali, io penso che tutto si possa dire salvo che andiamo peggio dove siamo in alleanza. Diciamo che il caso di Torino è paradigmatico.
Simone
Scusa Rosa ma tu pensi che a Rimini i nostri compagni abbiano votato SEL perché più radicale e contro il PD? Sarebbe una notizia che SEL è più radicale di Rifondazione!! un caso più unico che raro!
La svolta è possibile. Da Milano a Napoli, a tutto il Paese
C’è il sole oggi su molte grandi e piccole città d’Italia. Da Milano a Napoli, passando per Bologna, la sconfitta del centrodestra è ovviamente l’elemento cardine su cui impostare un ragionamento e una analisi di queste elezioni amministrative. Giuliano Pisapia sale progressivamente sempre nella lunga maratona di spoglio delle schede e oltrepassa di poco il 48%.
Una posizione di forza che dimostra come l’intero centrosinistra, dal PD fino alla FdS, abbia sostenuto con convinzione non un candidato “estremista”, ma un candidato veramente di sinistra che ha accettato di rappresentare quelle forze democratiche e di progresso che possono essere l’alternativa vera alla stagnazione della politica meneghina e alla retrocessione pericolosa dei diritti sociali e civili in una metropoli che merita di tornare ai livelli pre-tangentopolizi. Pisapia è un elemento di rottura, un grimaldello dell’onestà intellettuale, morale e civile, una disinteressata persona che ha nel suo carnet culturale e sociale elementi di forte egualitarismo, di solidarietà, di pace e di giustizia. Giuliano Pisapia è, dunque, quanto di più odioso agli occhi di La Russa, Berlusconi, Moratti e quanti altri ci possa essere: rappresenta ed è l’antitesi perfetta dei disvalori della destre e delle loro concretizzazioni in ambito politico.
Ora serve un atto di responsabilità da parte, ad esempio, del movimento di Beppe Grillo e anche del Terzo Polo: se davvero è necessario per tutti allontanare queste destre eversive da ogni controllo politico ed istituzionale, se proprio è difficile e non si può dare indicazione di voto per Pisapia, si dica una parola chiara e netta sulla libertà di coscienza per un voto contro il candidato berlusconiano al Comune di Milano. Non è un’acrobatico bizantinismo, ma la formula migliore per salvare capra e cavoli e per sentirsi abbastanza distanti da Pisapia sia per quanto concerne il movimento grillino sia per il Terzo Polo cattolico – gollista.
Questo, a mio parere, il necessario se non si realizzassero apparentamenti: mi sembra che molte delle questioni proposte dai Cinquestelle siano temi che sono parte da decenni e decenni del patrimonio ideale e propositivo delle forze progressiste, e quindi sarebbe naturale un percorso comune sui temi ambientali, su quelli del lavoro e su quelli dell’economia. Sono certo che Giuliano Pisapia saprà trovare la formula più adatta per dialogare con chi ha, purtroppo, calvacato l’onda comica di Grillo come proscenio per il lancio di una novità che, come si può vedere, programmaticamente parlando sta nelle proposte di Rifondazione Comunista e dei movimenti persino da oltre dieci anni.
Milano, quindi, come emblema di una pagina che può voltarsi, che può essere voltata e che può rappresentare un inizio. Un inizio che non va troppo efantizzato, ma che sicuramente è oggi una iniezione salutare di ottimismo e una presa di coscienza che Berlusconi e il suo sistema di potere non sono imperituri, non sono un monolite inamovibile, ma possono e devono essere sconfitti. Duramente sconfitti.
A questo proposito, il risultato di Luigi De Magistris a Napoli è doppiamente straordinario: non solo si impone come candidato alternativo al centrodestra, ma, facendo questo, sorpassa l’ambiguità politica del Partito Democratico in quel contesto e il suo chiacchieratissimo candidato presidente.
Pisapia e De Magistris sono oggi la dimostrazione che, per proporre al Paese e ottenere un cambiamento occorrono candidati che non siano parte della vecchia nomenclatura, ma che segnino radicalmente una linea di demarcazione tra il passato e il futuro.
Un confine che sembra essere stato percepito dagli elettori. Un primo, dunque, ottimo risultato che deve essere valorizzato appieno in questi quindici giorni di separazione dal turno di ballottaggio.
In tutto ciò, le forze della sinistra danno una lezione ai profeti del rigor mortis e del coma profondo per i comunisti: la Federazione della Sinistra ottiene, infatti, risulati grandemente superiori ai numeri di mille e mille più sondaggisti che relegavano Rifondazione e PdCI tra “gli altri” nelle voci e negli elenchi di rilevazione delle volontà elettorali dei cittadini. Tutto questo in uno scenario di assoluta censura ed oscuramento dalle televisioni, dalle radio e persino dai siti internet più visitati, come quelli dei grandi giornali nazionali.
Invece, come emerge dai dati di Milano, Napoli, Bologna, a parte il deludente 1,5% di Torino su cui occorrerà fare una approfondita riflessione (visto che si tratta della città operaia più importante di questo Paese), la Federazione della Sinistra raccoglie percentuali che sfiorano al Nord il 3% (e oltre) e nel Sud il 4%.
In altre città, come ad esempio la mia Savona, la Federazione della Sinistra arriva al 5,3% eleggendo due consiglieri comunali.
Allora, tirando delle provvisorie conclusioni, si può dire che una breccia molto larga si è aperta nel potere berlusconiano e che la coalizione PDL-Lega ora scricchiola sotto le parole di Bossi ai suoi fedelissimi, laddove si dice che insomma, le scelte del grande capo non sono poi state così felici, così come non è stato felice il suo eterno “crucifige” rivolto ai magistrati milanesi, lo scivolone dei manifesti “BR” contro la procura e non la gaffe, ma il vergognoso attacco della Moratti a Pisapia a Sky Tg 24. La Lega, sotto chock cerca il colpevole e non sarebbe la prima volta quella di trovarlo in Berlusconi (e con qualche ragione!)…
Ma a muovere a sinistra il Paese è anche e soprattutto una domanda di messa a fine con l’era di Berlusconi e della sua corte di lacché, saltimbanchi, nani e ballerine.
Se poi fosse la domanda di una politica più vicina alle esigenze popolari, sarebbe certamente da salutare la rinata presa di coscienza di molta parte del popolo italiano verso lo strumento del voto e della scelta della rappresentanza come effettivo collegamento tra bisogni e loro realizzazione attraverso i passaggi istituzionali.
Dopo tre anni di oscurantismo e di dichiarazioni di morte della sinistra e dei comunisti, oggi sappiamo che non ci sono manifesti funebri da affiggere, ma manifesti in cui si dica a chiare lettere: “La svolta è possibile. Realizziamola insieme, da Milano a Napoli, a tutto il Paese”.
MARCO SFERINI
17 Maggio 2011
Sono d’accordo con l’analisi di Oggionni: laddove la Federazione si è presentata in solitario, rivendicando una supposta diversità da tutte le altre formazioni di sinistra, è stata di fatto asfaltata dagli elettori. Al contrario, nei collegi in cui la Federazione ha lavorato per l’unità (specialmente Milano dove è stata uno dei pilastri della campagna elettorale di Pisapia) è stata perecepita come un partito utile all’intera sinistra.
Fa eccezione Napoli, città in cui quella di De Magistris era una scelta obbligata. E che infatti è stata premiata anch’essa.
ELEZIONI – FERRERO (PRC – FEDERAZIONE DELLA SINISTRA): NONOSTANTE LA CENSURA MEDIATICA LA FEDERAZIONE DELLA SINSITRA CRESCE.
Paolo Ferrero, segretario nazionale di Rifondazione Comunista ha dichiarato:
dichiarazione stampa di FERRERO
“Nonostante la vergognosa censura mediatica di cui siamo stati oggetto, la Federazione della Sinistra cresce nelle elezioni amministrative. In particolare ci tengo a sottolineare tre elementi:
1) Nelle elezioni provinciali, la somma dei voti delle forze che fanno parte della Federazione della Sinistra da luogo ad un risultato del 4,1%. Questo risultato rappresenta una crescita netta sia rispetto alle elezioni europee (era il 3,5% ) che rispetto alle elezioni regionali (era il 3,4%). Nulla di clamoroso, tuttavia rappresenta una crescita reale della Federazione ed è – per rimanere a sinistra – un risultato percentuale identico a quello di SEL (4,1% pure loro) e di poco inferiore a quello dell’IdV (4,8%). Non male visto il completo oscuramento di cui siamo stati oggetto.
2) La candidatura di Pisapia nelle elezioni primarie a Milano era stata sostenuta da SEL e dalla Federazione della Sinistra, che a Milano totalizza un 3,2 %, così come la Candidatura di de Magistris a Napoli è stata sostenuta dall’IdV e della Federazione della Sinistra, che totalizza il 3,6%. Anche qui, nulla di incredibile ma certo la Federazione della Sinistra è stata protagonista dei due fatti politici più rilevanti avvenuti nelle elezioni: la possibilità concreta di sconfiggere le destre ad opera di candidati di sinistra vera.
3) Dalle elezioni esce quindi confermata la validità della nostra proposta politica: la possibilità concreta di battere le destre attraver so una alleanza delle forze di centro sinistra e di sinistra – senza alleanze con il centro – e la necessità di unire le forze della sinistra (Federazione, SEL, IdV) al fine di modificare profondamente il profilo programmatico e politico del centro sinistra.
Mi pare che in questo clima in cui tutti fanno a gara a dichiararsi liberali e democratici, i mezzi di comunicazione dovrebbero dar conto di questi elementi di realtà.”
mi sembra stranamente sobrio il nostro segretario invece, che gli è successo…???
io la dico così come mi viene, ma penso che pure i nostri dirigenti dovrebbero dirlo senza reticenze: ma quand’è che Ferrero ammette che non ne imbrocca una e se ne va a casa? Ma avete visto a Torino? e avete visto il raffronto tra le regionali a Napoli e le comunali a Napoli? Si vince solo quando si è uniti! Altrimenti è un macello!
dichiarazione di sergio olivieri
Delle elezioni che hanno rinnovato i Consigli ed i Sindaci di numerosi Comuni della Liguria – a partire da Savona – voglio evidenziare due aspetti.
Il primo è che, come in tutta Italia, il centrodestra viene pesantemente sconfitto ed arretra: il vento cambia e stanno maturando le condizioni per liberare il nostro Paese dal regime berlusconiano.
Il secondo è l’ottimo risultato ottenuto dalla Federazione della sinistra.
A Savona miglioriamo in numero di voti e in percentuale rispetto alle Regionali del 2010 e siamo la forza più significativa a sinistra del Pd visto che otteniamo più consensi dell’Idv e di Sel.
Non si tratta di un dato isolato: in pressoché tutti i comuni nei quali la Federazione della sinistra era presente in liste unitarie o con liste della sinistra di alternativa, i nostri candidati ottengono risultati importanti.
A dispetto dei sondaggi che ci davano per estinti e surclassati da altre formazioni della sinistra, il voto vero ci dice che in Liguria, come nel resto d’Italia a partire da Milano e Napoli, ci sono tutte le condizioni per il rilancio dell’iniziativa dei comunisti e per la ricostruzione di una forte e coerente sinistra di alternativa.
Sergio Olivieri
Segretario regionale di Rifondazione Comunista – Federazione della sinistra
Quindi andiamo bene quando facciamo alleanze anche con l’Udc non solo con il Pd!!! Altro che Torino! Queste elezioni sono una scoppola per i vari estremisti dentro Rifondazione che ci hanno raccontato che Torino era il modello da seguire, alleanza con i pazzi di sinistra critica e lontani dal Pd perché ha la peste!
Ma quante stronzate! Ora avanti con il Fronte democratico e con la linea dell’unità a sinistra!
altra buona notizia!
Rifondazione Comunista e la Federazione della Sinistra della Spezia esprimono grandissima soddisfazione per l’eccellente risultato del compagno Gennaro Giobbe, eletto a Santo Stefano Magra con 209 preferenze, il quinto per numero di voti della lista “Juri Mazzanti Sindaco”.
Ai complimenti per la riconferma del primo cittadino santostefanese alla guida del comune, sottolineiamo la correttezza e la coerenza istituzionale e comportamentale in campagna elettorale del candidato Giobbe il cui impegno come assessore e le cui credenziali politiche all’insegna degli autentici valori della sinistra sono state lungamente premiate dall’elettorato santostefanese.
Rifondazione Comunista inoltre si congratula con Franca Cantrigliani, eletta sindaco di Riomaggiore e sindaco del rinnovamento per le Cinque Terre. Nell’auspicio di un forte cambiamento nel nome della trasparenza e partecipazione, non possiamo che esprimere a lei e ai suoi nuovi consiglieri i nostri più sinceri in bocca al lupo.
Riporto il commento di Claudio Grassi, mi pare non diverga molto da quello di Oggionni
Abbiamo già molti dati su cui riflettere. In giornata arriveranno quelli definitivi, quindi faremo una riflessione più fondata. Intanto alcuni flash sulla base dei primi risultati finora in nostro possesso.
1) La destra e Berlusconi subiscono una sconfitta pesante. La Moratti, non solo non vince al primo turno, ma viene distaccata di diversi punti da Pisapia. Berlusconi si è candidato a Milano, proprio per evitare questo. Le sue preferenze si sono dimezzate. Ha perso. Sarà interessante vedere la reazione della Lega.
2) Benissimo Pisapia e De Magistris. Quindi non è vero che la sinistra per vincere deve scegliere candidati centristi. Hanno fatto una campagna elettorale a sinsitra e hanno vinto. Sono stati votati poiché oltre ad una discontinuità hanno lasciato intradevedere, finalmente, una alternativa.
3) Al di là dei sondaggi che ci hanno bombardato in questi mesi e al di là dell’oscuramento mediatico, queste elezioni dimostrano che a sinistra del Pd c’è Sel, ma c’è anche la Fds che ottiene un risultato dignitoso.
4) A sinistra del Partito Democartico (Sel più Fds, ma occorre ragionare anche sull’Idv), esiste una forza superiore al terzo polo. Bisogna trovare le forme dell’unità possibile per fare fruttare questo patrimonio. Sel che ha avuto un buon risultato, ma non ha sfondato, deve accantonare atteggiamenti di autosufficenza e dialogare con le forze alla sua sinistra.
5) Come già avvenuto alle regionali la Fds va meglio dove va in alleanza (Milano), va bene anche dove non è in alleanza col Pd, ma riesce a stare in una coalizione vasta (Napoli). Va male dove va da sola o con forze alla sua sinistra. Il risultato di Torino, nella sua drammaticità, risponde inequivocabilmente a coloro i quali hanno ritenuto di presentare questa coalizione come un esempio da estendere a livello nazionale.
6) Pur essendo numeri piccoli è il caso di guardare anche al consenso raccolto dalle liste a sinistra della Fds (Pcl, Sc, Rete dei Comunisti). Il risultato, a partire da quello di Torino di Sinistra Critica, della Rete dei Comunisti a Napoli e del Pcl un po’ ovunque è privo di consistenza. Anche su questo occorre riflettere, visto che spesso ci è stato detto che occorre guardare, in egual misura, a Sel e alle forze che stanno a sinistra della Fds.
Sono solo alcuni flash, più tardi una riflessione piu compiuta.
Una prima, parziale, lettura
Il risultato di questa tornata non può, ovviamente, essere letto in modo univoco e semplicistico. Tuttavia emerge un quadro che ci dice alcune cose. Innanzi tutto ci dice chiaramente che noi esistiamo ancora. Pur non mancando risultati negativi, come Torino, certamente SEL non può dire di essere l’unica forza a sinistra. Vendola e c. trovano una buona affermazione laddove il suo voto è funzionale al PD. Basti pensare a Bologna. Mentre il caso di Milano dove sembrava quasi scontato l’effetto trainante del loro candidato a Palazzo Marino SEL non ottiene certo un risultato schiacciante.
In tutto questo non possiamo non leggere nettamente il risultato di Torino. Ovviamente l’appoggio a Fassino non poteva certo essere preso in considerazione e tuttavia, la strada solitaria intrapresa con Sinistra Critica non è assolutamente percorribile. In generale, poi, si registra un arretramento più che dell’asse Berlusconi-Bossi dell’ipotesi moderata. La sinistra e i comunisti, complessivamente, registrano una buona affermazione pur scontando, evidentemente, un eccesso di frantumazione che impedisce, nei fatti, un giudizio nettamente positivo. Come dire, la potenzialità di una forza di sinistra c’è a patto che si abbandoni l’autoreferenzialità e si giochi, o si cerchi di giocare, su uno stesso tavolo. L’ipotesi su cui è nata la Federazione è dunque ancora valida! In Toscana i risultati complessivamente confermano che la Federazione c’è. Anche a Figline il risultato, per quanto amaro (è per pochi voti se non entriamo in consiglio comunale) è certamente buono. Raggiungere quasi il 4% dei voti in totale solitudine e, in partenza, con un candidato che nessuno a Figline conosceva (e là in assenza del Partito). Credo che Dimitri e i GC abbiano fatto veramente un miracolo!
Da qua a un mese dovremo lavorare al Referendum, laddove ovviamente non vi siano ballottaggi, ma anche alla costruzione della Federazione con gli occhi puntati ai risultati ottenuti che, a mio avviso, mostrano la necessità di un impulso alla costruzione di lotte comuni con tutte le forze politiche della sinistra con riguardo a SEL.
Luca Rovai